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DARIO BELLEZZA
Poesie scelte

Amleto


Ho portato il mio vecchio corpo rotto da malattie

che non danno più la pace dello Spirito fino al teatro

dove Amleto carezzava la sua imperatrice madre

cacciatrice di mode pur di evitare la servitù

dell’amore filiale o il coraggio di un incesto

per bene, quasi fosse la mia, di madre, tenera madre

dimenticata nelle sue nevrosi mattutine

di casalinga inquieta, nelle inquiete stanze

della vastità amara di un tempo. Ero giovane,

ero ragazzo, ero libero, ero cascamorto giullare

di un invito al ristorante con la grande artista

melodiosa del verbo incarnato del Cristo.

Ora lo sento il tempo distante da me che vivo

fuori del tempo e nessuno mi ha in simpatia,

neppure quando grido che in Italia si può

essere, o ironia di una citazione!, solo

ideologici o arcadici. Sempre al sevizio

di qualche re buffone, arlecchino dalle cento

piaghe. Diventare vecchi bacucchi significa

mangiare la foglia della schiavitù corrigenda,

della fulminea posta al direttore delle carceri

divine. Non c’è spazio per te, qui. Dario caro,

dittelo con tutta la fosca ottenebrata concessione

alla limitazione temporale degli editti di morte.

Qualcuno ti ha condannato a morte; e non è la carità

che spinge il tuo cuore a trasmettere il turpe messaggio

al cervello, né la paura solitaria della mano

sul membro in erezione continua,

ma la visione di Amleto, tuo simile,

spia terrena del Diavolo, traditore dei traditori

che s’infiamma nella ricerca della verità inesistente.

Eppure il suo pazzo consiglio nel dramma è identico

al tuo: «Di avercela tanto con i traditori,

avendo da sempre tutti, senza esclusione, tradito».



***


Forse mi prende malinconia a letto

se ripenso alla mia vita tempesta e di

mattina alzandomi s’involano i vani

sogni e davanti alla zuppa di latte

annego i miei casi disperati.


Gli orli senza miele della tazza

screpolata ai quali mi attacco a bere

e nella gola scivola piano il mio

dolore che s’abbandona alle

immagini di ieri, quando tu c’eri.


Che peccato questa solitudine, questo

scrivere versi ascoltando il peccatore

cuore sempre nella stessa stanza


con due grandi finestre, un tavolo

e un lettino di scapolo in miseria.


E se l’orecchio poso al rumore solo

delle scale battute dal rimorso

sento la tua discesa corrosa

dalla speranza.



***


La vergogna del sesso sconclusionato

che l’eterne piste percorre con il gusto fratello

che s’ubriaca dell’amore per l’originario incesto

non concede tregua al mio purgatorio;


l’angolo della perdizione è un misfatto

che danna ad occhi chiusi, occhi crepati

dalla malinconia di te fanciullo mio

che mi tradisci con gli avvoltoi interi

della Rivoluzione;


consumo fiumi d’inchiostro, aspetto

che il neghittoso e perfido mare bollito in pentola

mi purifichi del tuo petto d’uccellino,


la fuga, l’oblio non bastano all’incontro

con il nulla che mi s’aggrappa addosso.



Fuori di me


Alla follia, non badate, datemi retta!

Pensate piuttosto ai nuovi ritmi in cui

immergere la vostra vita perduta dietro

l’apparenza delle cose. Cercate l’immortalità,

l’eterna questione del mare splendente

dentro il sole di giugno che diventa nero

a notte e scompare nelle tenebre. Io

dimenticato relitto di una civiltà

passata sono il solo che piango i defunti

miraggi di un’età morta e ancora

coprendomi di ridicolo scrivo lettere

d’amore a traditi amori di un’epoca trascorsa,

la giovinezza, e ricordo lo studente

che piegava la sua retta immagine

a misurare l’angolo della sua carnale diversità,

a versare nel seno asciutto di una madre

occasionale la solitudine futura dei suoi

giorni tutti uguali. Lasciatevi andare

verso il mare della vita! Assaporatene

la musica sbiadita, e trionfatore sarà

solo il Tempo e il suo nero oltraggio, la Morte!

Mentre io ancora scriverò che il poeta

chiude in stremate parole il suo cervello

mirando il muro in alto della sua stanza

e le poesie scivoleranno via, senza pietà,

e nessun Dio le registra, incarnandosi

per un attimo.

Il ritmo non sa di mirtillo acerbo

e piegarsi sulla bianca pagina di un diario

il meglio dell’ispirazione fa in un fiato

dileguare.

Chiamatemi così: pazzo, deserto testimone

di un deserto da percorrere in una torrida

estate, senza acqua raccolta nella gobba

di un domestico dromedario, e la mia poesia

definitela con crudeltà e livore come lubrica,

oscena, interessata e manigolda consigliera

di sventura o furto di anime giovanili

in cerca di nuove reincarnazioni.

Sappiate però che brucio di gioia, di allegria

feroce dentro la mia casa buia, prigioniero

di calamitose idee, slabbrando la mia merda

in privata visione senza lo scempio

di immagini e talenti altrui. Sono un genio

geniale che la vita spassa da un dolore all’altro,

teatrale, senza ferite apparenti che non siano

d’amore, piaghe purulente lasciate da una donna

fatale che nessuno conosce. Slabbro la mia

merda in privata visione: ghirigori

collettivi e birbanti. Muratemi

in una galera con la bibbia e i santi.



***


M’impaura la mia incerta voce

che certo smania il suo tono

implacabile di verità. Una voce

sottile, smagata che corrode

l’anima mia nera di peccati...



Roma 1989


È avventizio il mio essere reale.

Sleale è insistere su chi sono io.

Il punto di partenza è scontato –

l’arrivo è certo nello stato

attuale: morte come sostanza

o strato finale di un cuore malato.


Oh, vorrei rinascere, ritornare indietro

ma non posso. Troppo ho peccato

di peccati non miei, attribuiti

a posteri, mancati inganni.

Cerco amori nuovi, violente sere.

Perdono chiedo a chi non amai.

Forse verrò domani ad un prato

verde, – e non sarò più solo.



***


Penso che dovrei avere un figlio:

che mi guardi dal letto sfatto e sorrida

mentre ascolto una musica lontana

celestiale, di sogno... La porta

aperta sull’infinito, e un’infinita

preghiera... Calme parole

sussurrate nel vento aperto

della notte oscura. Io ti guardo,

figlio, dormiente sereno

in un tripudio colorato, mimetico

di rosse coperte, su un divano bianco

un cappelletto blu in testa

a coprire i capelli tagliati corti

come un collegiale o un militare.


Io solo, solissimo ti guardo,

figlio, non avendo doni per te

oggi che splende il tuo sedicesimo

compleanno. Non trovo

che sommesse virtù per rasserenarti

in un futuro che nessuna morte

intoccabile sfiorerà

con la sua adunca orrida mano.



Lacrima amoris


Come si fa a resistere alle lacrime?


Sono radioattive ormai come il cuore

dopo Chernobyl: oggi non piange più nessuno:

neppure i morti sono pianti, anche se la Signora


Eccelsa di nome Morte non piange. Ma io

alle lacrime non so rinunciare, alle lacrime

piante per finta o per davvero condite

di perfidi pulviscoli non so rinunciare.

Le calde lacrime che su gote amate

scendono piano o silenziose

come una mano le scalda un’altra

le butta via. Lacrime leccate, invano

succhiate che resistono alla vita,

si spargono in lacrime purulente

come lacrime venute a pioggia

da un mondo lontano e infetto.


Si piange, e chi piange nell’attesa

non può vincere il pianto. L’Intrattabile

è morto: radiazioni illacrimate

lo spensero nel diluvio della pioggia:


io non piango un pianto contaminato,

né posso raccogliere il tuo pianto

radioattivo che scende, sì, gote amate

ormai avvelenate, baciate su dita

aride e consunte, contate avido

di essere vicino alla contaminazione

finale, o Chernobvyl di morte

più mortale di un cuore desolato

e assente.



***


Dio mi moriva sul mare

azzurro, sul suo pattino dove

mi aveva invitato ad andare.


Ma fu la gelosia, la normalità

dei ragazzi a spingermi a rifiutare,

ad alzare le spalle alle battute 

salaci.


L’odore del mare riempiva

le navi e tu cantavi negli occhi

ridarella di vittoria.



***


Se un poeta, io, regalo al cupo silenzio

della notte metà del tempo che m’incalza

ostinato inquisitore di un corpo

sbalordito dall’abitudine, decomposto,

in ansia perpetua di non lasciare traccia

di sé nei corpi altrui o stampo caldo

nelle fresche leggere menti adolescenti


né la Storia, l’ordalia infernale

dei tiranni assetati di sangue e morte

non considero, ne viene anzi, rabbia,

sgomento, urlo lontano nella gola secca,

pianto sommesso o gridato, abbiate pietà!,

vi scongiuro, trattenete l’angoscia che sale

alle mie stanze, feritela, fate qualcosa!

grida la mia voce isterica e arrotata

dallo snobismo clientelare con il Diavolo;

ne viene tutto come meta finale un nulla,

un ghiacciato nulla senza escrementi

o virtù viziosa di drogato. Talché scrivo

in privato, di nascosto, che nessuno sappia,

per carità, madre di un attimo, amante

passeggero dentro un treno o una fratta,

scrivo un testamento o calendario, a seconda

dei temi giornalieri destinati dal Caso,


non umili o meschini o facili o malati

ma sempre datati come ogni cosa deriva

dall’anno il suo profumo e la menzogna,

spera di trovare l’occaso salutare

fuori di qui, terra bruciata, di nessuno

di là dal mondo certo e pellegrino.

Dario Bellezza nacque a Roma il 5 settembre 1944. Scoperto e lanciato da Pier Paolo Pasolini, s’impose all’attenzione del grande pubblico con L’Innocenza (1970; poi col tit. Storia di Nino, 1982), romanzo breve presentato da Alberto Moravia. Nel 1971 pubblicò la raccolta poetica Invettive e licenze: recuperando le tanto vituperate istanze dell’io, il libro si nutriva di un autobiografismo sovraeccitato e ‘maledetto’, mettendo in scena polemicamente una condizione di irriducibile diversità e di quotidiano disordine sullo sfondo di una Roma ‘bassa’ e incanaglita. A conferire dignità di poesia a una materia così incandescente, e solo in parte decantata nelle opere successive, soccorrono (si pensi soprattutto a Morte segreta, 1976) le virtù di un linguaggio letterariamente scaltrito (con modalità che vanno dall’acceso lirismo di Rimbaud alla tenerezza di Penna, all’indignazione di Pasolini) e capace nei momenti migliori di dare voce a uno strazio non più solamente privato. L’attività letteraria di B. continuò a svolgersi sul duplice piano della poesia e della narrativa. Malato di Aids dal 1987, morì in povertà e solitudine il 31 marzo del 1996 a Roma.



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Testi selezionati da Tutte le poesie (Mondadori, 2015)

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