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CZESŁAW MIŁOSZ
Poesie scelte

Speranza


La speranza c’è, quando uno crede

Che non un sogno, ma corpo vivo è la terra,

E che vista, tatto e udito non mentono.

E tutte le cose che qui ho conosciuto

Son come un giardino, quando stai sulla soglia.


Entrarvi non si può. Ma c’è di sicuro.

Se guardassimo meglio e più saggiamente

Un nuovo fiore ancora e più d’una stella

Nel giardino del mondo scorgeremmo.


Taluni dicono che l’occhio c’inganna

E che non c’è nulla, solo apparenza.

Ma proprio questi non hanno speranza.

Pensano che appena l’uomo volta le spalle

Il mondo intero dietro a lui più non sia,

Come da mani di ladro portato via.



Prefazione


Tu, che non ho potuto salvare,

Ascoltami.

Cerca di capire questo linguaggio semplice, mi vergognerei di un altro.

Non possiedo, lo giuro, la magia della parola.

Ti parlo tacendo, come una nuvola o un albero.


Ciò che fortificava me, per te era mortale.

Hai scambiato il congedo di un’epoca per l’inizio di una nuova,

L’afflato dell’odio per bellezza lirica,

La forza cieca per forma compiuta.


Ecco la valle dei bassi fiumi polacchi. E il ponte enorme

Che avanza nella bianca nebbia. Ecco la città infranta

E il vento scaglia contro la tua tomba gli stridi dei gabbiani,

Mentre parlo con te.


Cos’è la poesia che non salva

I popoli né le persone?

Una complicità di menzogne ufficiali,

Una cantilena di ubriachi, a cui fra un attimo verrà tagliata la gola,

Una lettura per signorinette.


Che volevo una buona poesia, senza esserne capace,

Che ho capito, tardi, il suo fine salvifico,

Questo, e solo questo, è la salvezza.


Spargevano sulle tombe miglio e semi di papavero

Per nutrire i morti accorrenti in volo – gli uccelli.

Depongo qui questo libro per te, o trascorso,

Perché d’ora innanzi tu smetta di apparirci.



Eraclito


Aveva pietà di loro, lui stesso degno di pietà.

Perché la cosa è al di là delle parole di qualunque lingua.

Perfino la sua sintassi, oscura, come gli veniva rimproverato,

Le parole disposte così da avere triplice senso,

Non afferreranno nulla. Quelle dita nel sandalo,

Il seno della ragazza così esile sotto la mano di Artemide,

Il sudore, l’olio sul viso dell’uomo dei bastimenti

Partecipano all’Universale, esistendo separatamente.

Nostri in sonno e ormai solo a noi dediti,

Amorosi dell’odore del corpo caduco,

Del calore centrale sotto il pelo pubico,

Con le ginocchia sotto la barba, sappiamo che esiste il Tutto

E vi aspiriamo invano. Di noi stessi, quindi animali.

L’esistenza singola ci toglie la luce.

(La frase può essere rovesciata).

«Nessuno era fiero e sprezzante come lui».

Perché si torturava, non potendo perdonare

Che un attimo di consapevolezza non ci trasformi mai.

La pietà raggiunse la collera. Al punto che fuggì da Efeso.

Non voleva vedere viso umano. Abitava sui monti.

Si cibava di erbe e foglie, narra Laerzio.

Sotto la sponda scoscesa dell’Asia il mare inclinava le onde

(Dall’alto non si vedono le onde, ma solo il mare),

E là è l’eco che porta le scampanellate d’un tabernacolo?

O sono le vesti d’oro d’Orlando Furioso che scorrono?

O è il muso d’un pesce che toglie il liquido belletto dalle labbra

Della radiotelegrafista dei sommergibili?



Cosa significa


Non sa di brillare

Non sa di volare

Non sa di essere questo e non quello.


E sempre più spesso a bocca aperta,

Con la Gauloise che si spegne,

Davanti a un bicchiere di vino rosso,

Penso a cosa significhi essere questo e non quello.


Quando avevo vent’anni era lo stesso.

Allora però con la speranza di poter essere tutto,

Forse anche farfalla o merlo, per sortilegio.

Ora vedo le strade polverose del circondario

E la cittadina dove l’impiegato delle poste si ubriaca ogni giorno

Per il rammarico di essere identico solo con sé.


E se a rinchiudermi fossero soltanto le stelle

E se le cose stessero semplicemente così,

Che ci sono il così detto mondo e il così detto corpo.

Se volessi essere non contraddittorio. Ma no.



Ars poetica?


Ho sempre aspirato a una forma più capace,

che non fosse né troppo poesia né troppo prosa

e permettesse di comprendersi senza esporre nessuno,

né l’autore né il lettore, a sofferenze insigni.


Nell’essenza stessa della poesia c’è qualcosa di indecente:

sorge da noi qualcosa che non sapevamo ci fosse,

sbattiamo quindi gli occhi come se fosse sbalzata fuori una tigre,

ferma nella luce, sferzando la coda sui fianchi.


Perciò giustamente si dice che la poesia è dettata da un daimon,

benché sia esagerato sostenere che debba trattarsi d’un angelo.

È difficile comprendere da dove venga quest’orgoglio dei poeti,

se sovente si vergognano che appaia la loro debolezza.


Quale uomo ragionevole vuole essere dominio dei demoni

che si comportano in lui come in casa propria, parlano molte lingue,

e quasi non contenti di rubargli le labbra e la mano

cercano per proprio comodo di cambiarne il destino?


Perché ciò che è morboso è oggi apprezzato,

qualcuno può pensare che io stia solo scherzando

o abbia trovato un altro modo ancora

per lodare l’Arte servendomi dell’ironia.


C’è stato un tempo in cui si leggevano solo libri saggi

che ci aiutavano a sopportare il dolore e l’infelicità.

Ciò tuttavia non è lo stesso che sfogliare mille

opere provenienti direttamente da una clinica psichiatrica.


Eppure il mondo è diverso da come ci sembra

e noi siamo diversi dal nostro farneticare.

La gente conserva quindi una silenziosa onestà,

conquistando così la stima di parenti e vicini.


L’utilità della poesia sta nel ricordarci

quanto sia difficile rimanere la stessa persona,

perché la nostra casa è aperta, la porta senza chiave

e ospiti invisibili entrano ed escono.


Ciò di cui parlo non è, d’accordo, poesia,

perché è lecito scrivere versi di rado e controvoglia,

spinti da una costrizione insopportabile e solo con la speranza

che spiriti buoni, non maligni, facciano di noi il loro strumento.



Scadenze


Tutto trascorso, tutto dimenticato,

sulla terra solo fumo, nuvole morte,

e sui fiumi di cenere ali che ardono

mentre arretra il sole avvelenato

e l’alba della condanna esce dai mari.


Tutto trascorso, tutto dimenticato,

è dunque ora che tu sorga e corra,

anche se ignoti lo scopo e la sponda,

tu vedi solo che il fuoco brucia il mondo.


Ed è ora di odiare ciò che amavi,

e di amare ciò che hai odiato

e di calpestare i volti di chi ha scelto

la bellezza silenziosa.


Per il deserto, il viale, le forre dei muti

− dove il vento ogni voce trasforma in sussurro

o in sonno pesante con la testa all’indietro −

andare. Allora... Allora tutto era in me

grido e richiamo. Col grido e il richiamo

mi lacerava il germoglio di nere primavere.

Basta. Basta. Eppure non si è trattato d’un sogno.


Nessuno sa nulla di te. Il vento soffia così sui fili.

È dunque ora. Io ho amato questa terra tanto

quanto nessuno sa farlo in epoca migliore,

quando sono felici i giorni e quiete le notti,

quando sotto l’arco dell’aria, sotto il portone

delle nubi cresce questa grande alleanza

di forza e fede.


Ora devi chiudere forte gli occhi,

perché monti, città e acque si accatastano,

e ciò che durava schiacciato − precipiterà in avanti,

ciò che andava avanti − cadrà all’indietro.

Sì, solo chi aveva il sangue più caldo degli altri

si ergerà sulla mandria di teste d’oro al galoppo

e con un grido volgerà in basso la spada aguzza.

Passato, passato, nessuno ricorda le colpe,

solo gli alberi come àncore gettate nel cielo,

gli armenti scorrono giù dai monti, hanno coperto le vie,

girano i raggi delle ruote, il fumo ci avvolge.



Quando c’è la luna


Quando c’è la luna e le donne in abiti a fiori passeggiano

Provo stupore per i loro occhi, le loro ciglia e tutta l’organizzazione del mondo.

Mi sembra che da una propensione reciproca così grande

Potrebbe finalmente risultare la verità ultima.



Verso la fine del ventesimo secolo


Verso la fine del ventesimo secolo, nato al suo inizio,

dopo aver scritto libri, buoni o cattivi, ma laboriosi,

dopo conquiste, perdite e recuperi,


sono qui con la speranza di poter ricominciare da capo

e guarire la propria vita pensando intensamente alle cose conosciute,

così intensamente che il tempo non potrà sottrarre luoghi e persone

e tutto durerà più vero di com’era.


Senza capire la provenienza degli anni di estasi e tormento,

accettando la propria sorte e implorandone un’altra,

non ho avuto indulgenza con me stesso, ho stretto le labbra.


Orgoglioso di una sola, a me nota, virtù:

lo sferzarmi con una disciplina dalle molte braccia.


Ricomincio continuamente da capo, perché ciò che dispongo in racconto

si rivela una finzione, comprensibile per gli altri, non per me,

e il desiderio di verità mi rende disonesto.


Allora penso ai precetti dello stile alto

e alle persone che non sono mai state necessarie.

Come pure al fatto che da una vita intera mi inganna la speranza.

Czesław Miłosz (Szetejni, Lituania, 1911 – Cracovia 2004) si affermò poco più che ventenne come il più originale rappresentante di un gruppo letterario d’avanguardia a Vilna. Nel 1933 pubblicò Poema del tempo congelato. Tre anni dopo, in Tre inverni, rivelò grandi ambizioni formali e una decisa intonazione pessimistica. La piena maturazione del suo talento trovò valida espressione, dopo la seconda guerra mondiale, nella raccolta di poesie Salvazione (1945), di cui la critica e i lettori apprezzarono in particolar modo i motivi ispirati a Varsavia. Di eccezionale interesse la testimonianza La mente prigioniera (1953) sulla condizione degli intellettuali nelle democrazie popolari. Tra le altre opere: i saggi Europa familiare (1959) e La terra di Ulro (1977), i romanzi La conquista del potere (1954) e La valle dell’Issi (1955), e le raccolte di versi La città senza nome (1969) e Dove sorge e dove tramonta il sole (1974). Professore di Letteratura polacca presso l’Università di Berkeley negli USA, fu insignito del Nobel nel 1980.



*

Testi selezionati da Poesie (trad. di P. Marchesani, Adelphi, 1983)

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