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CLEMENTE REBORA
Poesie scelte

Voce di vedetta morta


C’è un corpo in poltiglia

Con crespe di faccia, affiorante

Sul lezzo dell’aria sbranata.

Frode la terra.

Forsennato non piango:

Affar di chi può, e del fango.

Però se ritorni

Tu uomo, di guerra

A chi ignora non dire;

Non dire la cosa, ove l’uomo

E la vita s’intendono ancora.

Ma afferra la donna

Una notte, dopo un gorgo di baci,

Se tornare potrai;

Sóffiale che nulla del mondo

Redimerà ciò ch’è perso

Di noi, i putrefatti di qui;

Stringile il cuore a strozzarla:

E se t’ama, lo capirai nella vita

Più tardi, o giammai.



***


Dentro il meriggio stanno alberi

Vividi al sol che infiamma la sua ora

Sopra le vette: e tu, aria, ne accogli

Limpidamente la forma sonora.


Tutta è mia casa la montagna, e sponda

Al desiderio il cielo azzurro porge;

ineffabile pàlpita gioconda

l’estasi delle cose, e in me si accorge.


Quassù quassù, fra il suonar dei campani

E il canto lungo di un prono bifolco.

L’umano destino vincola le mani

Con lacci che non han peso né solco;


Quanto misero mal vita perdoni,

Quanta bontà ci volle a crear noi,

Quassù quassù non è chi l’intoni

Mentre vorrebbe far puri i dì suoi.



***


Sgorga lucendo un ventilato ardore

Che sugli alberi fondi s’ingorga

E per le case dall’occhiaia strana

Giù si dipana in ombre sulle vie,

Dove assopito è il vorticoso squillo

Fra chi va lento a digerire il giorno.

L’anima tarda, sul balcon tranquillo

Alla mamma vicina io mi riposo:

Spazia ella intorno tacita e divina

Accarezzando guarda.

Viver la sento; e nel baleno aperto,

Le prove conosciute e la natura

Mi fan del sentimento un desiderio

Di cambiar modo e ventura;

Ma facil si palesa il buon cammino

Che riman sogno

E nel vorace tempo è vana attesa.

E mi vergogno ripensando a lei

Che nel donare il sangue fu serena;

A lei che, triste d’aver troppo, volle

Alla sua gioia il sacrificio appena,

Ma a noi perdona i soffici fastidi;

A lei che il cuor ci veglia e la movenza

In un senso di culla

E, se non diciam nulla,

Contro l’ignoto male

Sbarra a difesa il suo amore;

A lei che avviva, accomunando ai figli.

La silenziosa carità paterna.

Quanto fu bello che nascessi nostra

O mamma, così mamma

Da non poterti sapere!

Ma nulla a te dico:

Oh bavaglio nemico

All’ingenua effusione

D’ogni palpito vero,

Libero invan quando sarà rimorso!

Ma invincibile si ostina

Il tacer che mi fa nodo:

Soqquadro nel barlume chi cammina

Per il corso che pullula luci;

Sopra è l’oscura pàlpebra

Della notte, che appena laggiù schiusa

Un’ardente pupilla ha lasciato.



***


Venga chi non ha gioia a ritrovare

Questa voce che mia

Par soltanto e di sogno:

Ma ciò ch’essa non dice,

Ognuno, s’entri a cantare,

L’intenderà secondo suo bisogno.

Mentre l’ora è infelice,

Questa voce  pazzia:

Ma qui c’è un cuore e vorrebbe

Altri cuori trovare;

Mentre l’àttimo svena,

Questa voce è ironia;

Ma qui c’è amore e vorrebbe

Altro amore infiammare;

Mentre rapace artiglia

Nel cervello e nel senso

La fame e la sciagura

La voglia e l’ansietà,

Vien qua tu, poesia maledetta,

A veder la bellezza

A provar la bontà:

Ma qui c’è aiuto e vorrebbe

Altro aiuto invocare.

Ciascun dica ove è perso,

E nella voce unita

Consensi abbia e richiami.

Il dolor plachi come la stanchezza

Che reca sonno a riprodur la veglia,

Il dolor snodi come la giornata

Che rovinando crea l’indomani,

Il dolor viva come buona madre

Che trae dal penar la sua speranza,

Il dolor fiammi come la lanterna

Che dal nostro il cammin svela degli altri.

Ciascun apra suo gorgo e lo fluisca

Ruscello all’acqua altrui.

[...]



Viatico


O ferito laggiù nel valloncello

Tanto invocasti

Se tre compagni interi

Cadder per te che quasi più non eri,

Tra melma e sangue

Tronco senza gambe

E il tuo lamento ancora,

Pietà di noi rimasti

A rantolarci e non ha fine l’ora,

Affretta l’agonia,

Tu puoi finire,

E conforto ti sia

Nella demenza che non sa impazzire,

Mentre sosta il momento,

Il sonno sul cervello,

Lasciaci in silenzio –


Grazie, fratello.



***


Viene un vento di bufera

Velocissimo, e scoppia

In un fragore di grandine.

Anche tu, immortal natura,

Perdesti oggi l’ineffabile

Saggezza: lode a satana!

Ma dopo? Uguale a te,

Non a me, tornerà il tempo.



***


[...]

Mentre il borgo è qui vivo

E fruga di lavori il suo declivo,

Pulsa lontan la vaporiera, all’erta

Zòccola un mulo, grave

Al lago veleggia una barca;

Meta è ovunque, ovunque corso:

A me il terror della vita e il rimorso.

E forse a te, ciel che t’infoschi

In un vorace stormo di nubi;

Ma come t’aggrovigli

Nel tuo gioco stai:

Io sbatto qui, e nel guardarti invano

Cade l’ora perduta;

E sotto il greto invano

Ho un fluir di corrente.

[...]



Tempo


Apro finestre e porte –

Ma nulla non esce,

Non entra nessuno:

Inerte dentro,

Fuori l’aria è la pioggia.

Gocciole da un filo teso

Cadono tutte, a una scossa.


Apro l’anima e gli occhi –

Ma sguardo non esce,

Non entra pensiero:

Inerte dentro,

Fuori la vita è la morte.

Lacrime da un nervo teso

Cadono tutte, a una scossa.


Quello che fu non è più,

Ciò che verrà se n’andrà,

Ma non esce non entra

Sempre teso il presente –

Gocciole lacrime

A una scossa del tempo.



La speranza


Speravo in me stesso: ma il nulla mi afferra.

Speravo nel tempo, ma passa, trapassa;

In cosa creata: non basta, e ci lascia.

Speravo nel ben che verrà, sulla terra:

Ma tutto finisce, travolto, in ambascia.


Ho peccato, ho sofferto, cercato, ascoltato

La Voce d’Amore che chiama e non langue:

Ed ecco la certa speranza: la Croce.

Ho trovato Chi prima mi ha amato

E mi ama e mi lava, nel Sangue che è fuoco,

Gesù, l’Ognibene, l’Amore infinito,

L’Amore che dona l’Amore,

L’Amore che vive ben dentro nel cuore.


Amore di Cristo che già qui nel mondo

Comincia ed insegna il viver più buono:

Felice amore di Spirito Santo

Che trasfigura in grazia e morte e pianto,

D’anima e corpo la miseria buia:

Eterna Trinità, dove alfin belli

– Finendo il mondo – saran corpi e cuori

In seno al Padre con la dolce Madre

Per sempre in Cristo amandosi fratelli, Alleluia.



Il pioppo


Vibra nel vento con tutte le sue foglie

il pioppo severo;

spasima l’aria in tutte le sue doglie

nell’ansia del pensiero:

dal tronco in rami per fronde si esprime

tutte al ciel tese con raccolte cime:

fermo rimane il tronco del mistero,

e il tronco s’inabissa ov’è più vero.

Clemente Rebora (Milano 1885 – Stresa 1957) inizia a collaborare alla «Voce», presso cui pubblica nel 1913 i Frammenti lirici. Partecipa alla Prima guerra mondiale, derivandone un grave trauma nervoso diagnosticato come “mania dell’eterno”; a quel periodo risalgono alcuni dei suoi testi più acuminati. I Canti anonimi (1922) costituiscono un forte segnale di quella crisi spirituale che lo porterà alla conversione al cattolicesimo. Sacerdote rosminiano, non scrive quasi più nulla per circa vent’anni, sino ai Canti dell’infermità e al Curriculum vitæ, frutto di una estrema fioritura artistica.



*

Testi selezionati da Le poesie (Garzanti, 1994)

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