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CHRISTINE LAVANT
Poesie scelte

***


Mentre io, turbata, scrivo,

nel disco della luna piena brilla

la parola che osservo

da quando la colomba mi ha deriso

perché dallo specchio dell’acqua

senza nome, senza sigillo,

entravo nell’arido.

Non fosse cresciuta

la semina dell’osservazione

dovrei uccidere luna e colomba

che sempre m’ingannano

e fanno il nido sul mio albero del sonno

che per questo rinsecchisce.

Spesso una parola s’imprime a fuoco

da sé nella sua corteccia,

e allora mando quel cieco

messaggio, che inutilmente si rigira

aggredendo il tuo sonno

mentre nel disco della luna

è in salvo la risposta.



***


Le tempie si riempiono di favonio –

Signore, vuoi bere la mia memoria?

Non una goccia dovrà cadere a terra

è così vitrea e bella

piena di segni immacolati.

Bevi senza timore dal mio cranio, fino in fondo,

per te non c’è bevanda troppo greve

il tuo cervello non sa addolcire nulla.

Sono balzata su molto in alto,

sotto ondeggiano i capelli del bosco

come la criniera del leone intorno all’agnello

della città bianca, fiorisce rosso-fuoco

la cresta di un gallo sul bordo della strada

dove un tempo c’era la mia memoria

davanti al cadavere di tuo figlio.

Chissà quanto mi allontanerò?

Già non conosco più il tormento,

che nel favonio mi spinse al Redentore –;

Signore, passa il dito sull’aculeo,

bevi misericordioso dal mio cranio, fino in fondo.



***


Terra, se tu avessi due labbra

e una lingua e un’ora gentile

vorresti allora parlare con me

anche ora che schiaccio rabbiosa

il mio moncone d’intelletto sotto i fiocchi di neve?

Terra, rideresti allora?

Mi sono vantata della tua amicizia

e ho raccontato che vivo spesso accanto alle radici

e che parlo del tempo con i sassi

e che sono in grado di condizionare il tuo sangue.

Mentire, sai, era come la malattia

che spesso precede le grandi epidemie

e il mio cuore mi ha sempre creduto.

Ora è stato contaminato e non fa che chiamarti,

non vuole morire prima, non vuole dire a nessun altro

ciò che ha in mente, che lo tormenta,

e chi alla fine vorrà benedire.

Terra, accetta la mia lingua,

terra, ti prego, e le mie labbra!

Spargi la voce sotto i fiocchi di neve

racconta dell’amore caldo e duraturo.



***


Ti ho tuffato nella mia rabbia!

Ora sei d’acciaio sopra la terra

e sotto, mansuete, avanzano le tue radici

tra pietre scricchiolanti.


Non portarmi il grano! Non ti ho reso acciaio

per saziarmi o addormentarmi

a me spetta la metà di quella mela

che matura tra i rami dell’albero del serpente.


Spada o giglio – tu li sei entrambi a metà!

Voglio scagliare in alto la tua affilatezza

ed essere dolce sorella della terra

e indurre in tentazione Dio come lui ha fatto con me.


Ti ha tuffato tre volte nel mio cuore

e ti ha ordinato di rinunciare a lui

ma io ti ho immerso nell’acciaio della rabbia;

ora porta a suo figlio la mia metà della mela!



***


Dimentica il tuo ciarpame, Creatore!

O sarai creatore

di ciò che è cadavere e lo rimane

e si unisce alla terra

ben più volentieri che al cielo.

Vai, continua ad ammantare i gigli

corrompi pure i passeri con il miele vergine –

io vivo di ruggine e muffa.

Tu dici che questo non mi sazia

e blateri della città di Dio

che molti conquistano con il digiuno.

Non io! Mi piace vivere nell’argilla

per diventare pietra e tuttavia

mai esserti di peso.



***


Stella, vai a casa ora, mi trema già la mano,

fai portare questo emblema a qualcuno di più forte!

Voglio gettarmi la notte alle spalle

e ricordarmi dove ho perso

la ragione quando ti ho visto.

Dov’è il tuo coraggio che si adattava a tutto?

Guai a te, stella, se non torna!

Non l’ho cresciuto per darlo ad altri.

Guarda, già il tuo ritorno si trasforma in un arco!

Stella, cadrai, perché su di te grava il mio coraggio

più che su di me la tua formula magica.

Vago leggera nello scialle che mi ricopre le spalle,

senza senno e senza coraggio ma piena di fiducia

nei miei sensi, che salgono come stelle.

Puoi mostrare il tuo emblema a qualcuno di più forte

io voglio masticare la radice della mia debolezza.



***


Voglio condividere il pane con i pazzi,

ogni giorno un pezzo di questo grande orrore,

anche la campana nel cuore,

là, dove il colombo fa il nido

e trova un minuscolo asilo

nella selva sulle acque.

A lungo ho vissuto come pietra

sul fondo delle cose.

Ma ho sentito la campana

sussurrare il tuo segreto

nei pesci volanti.

Imparerò a volare e a nuotare

e lascerò tutto ciò che è pietra sotto la pietra

lascerò la malinconia coricata nella madreperla,

ma solleverò in alto la rabbia e la miseria.

Le mie ali sono più antiche della tua pazienza,

le mie ali sono volate oltre il coraggio,

che s’era fatto carico dell’errare.

Voglio condividere il pane con i pazzi

là, nella spaventosa selva del colombo

dove la capanna divide in tre parti il grande terrore

trasformandolo nel suono tripartito del tuo nome.



***


Hai modificato tu il paesaggio tra noi.

Ogni cosa tra nuvole e radici ha subito gravi danni.

I fratelli non dormono più l’uno accanto all’altro

e il ponte della fiducia è sparito dagli occhi di tutti.

Non so più su cosa cammino, né dove vado,

perché la tua voce non mi porta nessun vento,

nessun richiamo d’uccello né rumore di fogliame.

Quattro volte verso il basso spinge la direzione del cielo

e la mia mano, che cerca la tua manica,

torna vuota e segnata.

Ora lo grido a perdifiato ed è come tempesta, che mi fa nuda,

tutta nuda, fino all’anima e senza vergogna sotto le stelle.

Perché, dimmi, perché mi hai lasciato il gridare?

E il cartiglio degli occhi sotto la fronte apprensiva?

Perché non mi hai strappato il cuore dalle costole,

perché non l’hai calpestato e dato, a pezzetti, in pasto ai cani?

Questo avresti dovuto fare prima di consegnarmi al villaggio!

Perché è questo l’inferno di cui sognavo con terrore da bambina,

e di certo anche prima nel corpo affamato di mia madre.

Tutto viene di lì.

Di lì sono venuta io, smilza e avida di miracoli,

che uno di essi alla fine mi rendesse bella

per le cose dell’amore e più tardi nella trasparenza degli angeli.

Tu avresti potuto farlo!

Lo sento ancora, sotto la cute, dove gemendo la bestia cresce.

Christine Lavant (pseudonimo di Christine Habernig-Thonhauser) è nata a St. Stefan, nella valle del Lavant, il 4 luglio 1915. Ultima di nove figli di una poverissima famiglia carinziana, fin da subito molto malata, si avvicina alla poesia da autodidatta, folgorata dalla lettura di Rilke. Inizia a scrivere molto presto ma pubblica solo a partire dal 1948 (il racconto lirico Das Kind), fissando subito la sua tematica su persone umili e diseredate, come dimostrano anche i successivi Das Krüglein (1949), Baruscha (1952), Die Rosenkugel (1956), Das Ringespiel (1963), Nell (1969). Compone, con accenti del tutto spontanei, raccolte di poesie, inizialmente sotto l’influsso di Rilke, poi sempre in progressiva autonomia (Die unvollendete Liebe, 1949; Die Bettlerschale, 1956; Spindel im Mond, 1959; Der Pfauenschrei, 1962; Hälfte des Herzens, 1966). Fin dal 1954 i suoi libri sono insigniti di premi e riconoscimenti, tra cui il Premio Georg Trakl e il Premio Grand Austrian State per la letteratura. Muore il 7 giugno 1973.



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Testi selezionati da Poesie (trad. di A. Ruchat, Effigie, 2016)

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