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CAMILLO SBARBARO
Poesie scelte

***


Magra dagli occhi lustri, dai pomelli

accesi,

la mia anima torbida che cerca

chi le somigli

trova te che sull’uscio aspetti gli uomini.


Tu sei la mia sorella di quest’ora.


Accompagnarti in qualche osteria

di bassoporto

e guardarti mangiare avidamente.

E coricarmi senza desiderio

nel tuo letto...

Cadavere vicino ad un cadavere,

bere dalla tua vista l’amarezza

come la spugna secca beve l’acqua.


Toccare le tue mani, i tuoi capelli

che pure a te qualcuno avrà raccolto

in un piccolo ciuffo sulla nuca;

e sentirmi spiato dai tuoi occhi

ostili, poveretta; e tormentarti

domandandoti il nome di tua madre...


Nessuna gioia vale questo amaro:

poterti fare piangere, potere

pianger con te...



***


Non, Vita, perché sei nella notte

la rapida fiammata e non per questi

aspetti della terra e il cielo in cui

la mia tristezza orribile si placa –

per le tue rose che non sono ancora

schiuse o si sfanno, per il Desiderio

che lascia nella mano ratta cenere;

per l’odio che portiamo ognuno al noi

della vigilia, per l’indifferenza

di tutto ai nostri sogni più divini;

per non potere vivere che l’attimo

al modo della pecora che bruca

ora questo ora quello ciuffo d’erba

e non vede né sa fuori di esso;

pel rimorso che sta in fondo ad ogni

esistenza, d’averla invano spesa,

come la feccia in fondo del bicchiere;

per la felicità grande di piangere;

per la tristezza eterna dell’Amore;

pel non sapere e l’infinito buio...


– per tutto questo amaro t’amo, Vita.



***


Taci, anima stanca di godere

e di soffrire (all’uno, all’altro vai

rassegnata).

Ascolto e mi giunge una tua voce.

Non di rimpianto per la miserabile

giovinezza, non d’ira o di rivolta

e neppure di tedio.

                                    Ammutolita

giaci col corpo in una disperata

indifferenza.

                        Non ci stupiremmo,

non è vero, mia anima, se adesso

il cuore s’arrestasse, se sospeso

ci fosse il fiato...

                              Invece camminiamo.

E gli alberi son alberi, le case

sono case, le donne

che passano son donne e tutto è quello

che è – soltanto quel che è.

La vicenda di gioia e di dolore

non ci tocca. Perduto ha la voce

la sirena del mondo e il mondo è un grande

deserto.

               Nel deserto

io guardo con asciutti occhi me stesso.



***


Piccolo quando un canto d’ubriachi

giungevami all’orecchio nella notte

d’impeto su dai libri mi levavo.


Come tratto di me, la chiusa stanza

all’aria della notte spalancavo

e mi sporgevo fuor della finestra

a bere il canto come un vino forte.

Con che occhi voltandomi guardavo

la camera e la casa

dove già tutti i lumi erano spenti!

Più d’una volta sulla fredda ardesia

al vento che passava nei capelli

alla pioggia che mi sferzava il viso

versai delle lacrime insensate.


Adesso quell’inganno anche è caduto.

Ora so come arida è la bocca

che canta spalancata verso il cielo.

Pur se ancora mi desta nella notte

quel canto d’ubriachi per la via

ad ascoltar mi levo con mozzato

in gola il fiato

e corro ancora a mettere la faccia

nel vento che i capelli mi scompigli.

Rinnovare vorrei l’amara ebrezza

e quel sottile brivido pel corpo;

il ben perduto cui non credo più

piangere come allora...

                                           Ma non m’escono

che stente stolte lacrime oramai.



***


Talora nell’arsura cittadina

un canto di cicala mi sorprende.

E subito mi colma la visione

di campagne prostrate nella luce;

e stupisco che ancora al mondo sian

alberi ed acque, le presenze buone

che bastavano un giorno a consolarmi...


Con questo stupor sciocco l’ubriaco

riceve in viso l’aria della notte.


Ma poi che sento l’anima aderire

ad ogni pietra della città sorda

com’albero con tutte le radici,

sorrido a me smarritamente e come

in uno sforzo d’ali i gomiti alzo....



***


Esco dalla lussuria. M’incammino

per lastrici sonori nella notte.

Rimorso non mi turba o punge. Sono

pacificato; immensamente.


                                                    Pure

qualche cosa è cambiato in me, qualcosa

fuori di me.

                       Ché la città mi pare

sia fatta immensamente vasta e vuota,

una città di pietra che nessuno

abiti, dove la Necessità

sola conduca i carri e suoni l’ore.

A queste vie che echeggiano deserte,

a queste case mute sono simile.

Partecipo alla loro indifferenza,

alla loro immobilità. Mi pare

d’esser sordo ed opaco come loro

d’esser fatto di pietra come loro.


I cari volti cotidiani sono

impalliditi nella lontananza,

estenuati quasi a ricordi.

Tra me ed essi s’è frapposto il mio

Peccato come immobile macigno.

E mi dicesser che mio padre è morto,

sento bene che adesso non potrei

piangere...



***


Voze, che sciacqui al sole la miseria

delle tue poche case, ammonticchiate

come pecore contro l’acquazzone;

e come stipo di riposti lini

sai di spigo, di sale come rete;


– nell’ombra dei tuoi vichi zampa il gallo

presuntuoso; gioca sulla soglia

il piccolo, con dietro il buio e il freddo

della cucina dove su ramaglie

una vecchia si china ad attizzare;

sulle terrazze splende il granoturco,

o rosseggia la sorba; nei coltivi

strappati all’avarizia della roccia

i muretti s’ingobbano, si sbriciola

la zolla, cresce storto e nano il fico –


in te, Voze, m’imbatto nel bambino

che fui, nel triste bimbo che cercava

in terra mele mézze per becchime

buttate, tratto dall’oscuro sangue

a mordere ai rifiuti;

nel cattivo celato dietro l’uscio

che godeva d’udirsi per la casa

chiamare da colei che lo crebbe

– e si torceva presso lui non visto,

la povera, le mani e supplicava

che s’andasse con pertiche alla gora.

Quando bevuto egli abbia ad ogni pozza

guasta,

più nessuno lo cerchi per la casa

vuota,

come in madre in te possa rifugiarsi.


Se l’occhio che restò duro per l’uomo

s’inteneriva ai volti della terra,

nella casa di allora che inchiodato

reca sull’uscio il ferro di cavallo

portafortuna,

sérbagli sopra i tetti la finestra

che beve al lapislazzulo laggiù

del mare, si disseta

alla polla perenne dell'ulivo,


Voze, soave nome che si scioglie

in bocca...

Camillo Sbarbaro (Santa Margherita Ligure 1888 – Savona 1967) lavorò come impiegato e insegnante. Negli ultimi anni si dedicò allo studio dei licheni. Collaboratore di «Riviera ligure» e della «Voce», esordì con i versi di Resine (1911) e Pianissimo (1914) che, per il lirismo autobiografico risolto in un tono essenziale e prosastico, rispecchiano il gusto del frammentismo. A tale gusto S. rimase fedele nelle successive raccolte di prose liriche (Trucioli, 1920; Liquidazione, 1928; seconda serie di Trucioli, 1948, in cui confluiscono, con varianti, anche testi dei due volumi precedenti; Fuochi fatui, 1956; Scampoli, 1960; Gocce, 1963; Quisquilie, 1967) e di versi (nuova stesura di Pianissimo, pubbl. nel 1954 insieme con la stesura del 1914; Rimanenze, 1955; Primizie, 1958).



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Testi selezionati da Poesie e prose (Mondadori, 2021)

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