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BARTOLO CATTAFI
Poesie scelte

Domani


Domani apriremo l’arancia
il mondo arancia nel verde domani,

si poserà la nuvola lontana
con le zampe guardinghe di colomba

sopra il tetto di tegole vecchie
sopra il tempo piovuto rugginoso,

serberò al tuo petto quell’odore

d’arancia viva, di verde domani.



Prince’s Street


Le grandi ombre sospese nella nebbia

toccano il suolo, vanno

nell’erica degli alti territori,

i Re a cavallo

con fiaccole di fosforo,

i Maghi, gli Emblemi, i Cavalieri.

Non ho l’unguento da mettere sui margini

né la statua che colmi questa nicchia

quando il falco ha fatto il suo viaggio

dal pugno a un cuore.

Copriti il buio del petto, il vuoto sibilante

se il vento entra in Prince’s Street come

in un lungo sentiero illuminato.

Nella tasca del nero

impermeabile che sventola al mio fianco

c’è il fiammifero spento, c’è il leggero

tabacco che fumano i fantasmi.


(Edimburgo, 1952)



Mio amore non credere


Mio amore non credere che oggi
il pianeta percorra un’altra orbita,
è lo stesso viaggio tra le vecchie
stazioni scolorite,
vi è sempre un passero sfrullante
nelle aiuole
un pensiero tenace nella mente.
Il tempo gira sul quadrante, giunge
un segno di nebbia sopra il pino
il mondo pende dalla parte del freddo.

Qui le briciole a terra, la brace del camino,

le ali,
le mani basse e intente.


(Lowonsford, 1952)



Partenza da Greenwich


Si parte sempre da Greenwich

dallo zero segnato in ogni carta e in questo

grigio sereno colore d’Inghilterra.

Armi e bagagli, belle

speranze a prua,

sprezzando le tavole dei numeri

i calcoli che scattano scorrevoli

come toppe addolcite

da un olio armonioso, in un’esatta

prigione.

Troppe prede s’aggirano tra i fuochi

delle Isole, e navi al largo,

piene, panciute, buone

per essere abbordate dalla ciurma

sciamata ai Tropici

votata alla cattura

di sogni difficili, feroci.


Ed alghe, spume,

il fondo azzurro in cui

pesca il gabbiano del ricordo

posati accanto al grigio

disteso colore

degli occhi, del cuore, della mente,

guano australe ai semi

superstiti del mondo.


(1953)



Nel cerchio


Qui nel cerchio già chiuso

nel monotono giro delle cose

nella stanza sprangata eppure invasa

da una luce lontana di crepuscolo

può darsi nasca un’acqua ed una nebbia

il mare sconosciuto e il lido

dove per primo devi

imprimere il tuo piede

calando dalla nave

consueta, transfuga

che il rombo frastorna

in corsa nella mente,

lungo le belle curve di conchiglia.

Sarà il prossimo il centro:

là s’appunta il nero

occhio, la nostra

perla di pece sempre in fiamme,

serrata tra le ciglia,

che per un attimo, in un battito ribelle

intacca il puro ovale dello zero.



Arcipelaghi


Maggio, di primo mattino

la mente gira su stessa come

un bel prisma un bel cristallo un poco

stordito dalla luce.

Dal soffitto si stacca

neroiridato ilare il festone

delle mosche,

posa su grandi carte azzurre

riparte e lascia

ronzando isole minime, arcipelaghi

forse d’Africa o d’Asia.

Intanto in cielo sempre più si svolge

la mesta bandiera della luce.

Prima di sera l’unghia

scrosta l’isole

le immagini superflue.

Le carte ridiventano deserte.



Qualcosa di preciso


Con un forte profilo,

secco, bello, scattante,

qualcosa di preciso

fatto d’acciaio o d’altro

che abbia fredde luci.

E là, sul filo della macchina, l’oltraggio

d’una minima stella rugginosa

che più corrode e corrompe più s’oscura.

Un punto da chiarire, sangue

d’uomo, briciola

vile oppure grumo

perenne, blocco di coraggio.



Autocondanna


Non fummo né abili né attenti,

non vedemmo le cose, c’era buio.

Comparve un esile barbaglio,

era il filo di fiamma d’una torcia

o d’altro dramma che riguarda l’uomo.

Le cose cominciavano a chiarirsi.

Chiedemmo arnesi d’emergenza,

sedia, benda, un gruppo di fucili

repentini.

                   Alle spalle, che importa, ciò che conta

è la porta d’uscita per salvare

l’unica cosa amata, a lungo amata,

trafugandola al mondo, alla chiarezza.



Ipotesi


Avanzammo le ipotesi migliori.

Non ressero,
al lume dei fatti
andarono in frantumi.

Avanzammo le altre, le peggiori.

La mente è un’abile

astuta acrobata. Teme l’abisso, il vuoto.

Ricompose col mastice i frantumi.



Preistoria


La radio tace, non giungono soccorsi.

Soltanto s’ode il lupo o il nostro stesso

muggito quando è l’ora.

Il cibo è magro, scovarlo

con l’occhio affaticato,

scannarci per un tubero, una bacca,

Le nebbie qui durano da sempre,

vietato varcarle. È preistoria.

Scoprire senza selci l’altro fuoco.



Perderci la vita


Perderci la vita

battendo quel solo chiodo

estendendo il dominio a quel centimetro

là concentrandolo

sprofondare

fare l’abisso con le proprie mani

spezzettare in atomi

molecole

rompere anche gli atomi

la polvere che resta sulle dita

ti segna in eterno

indossa guanti

metti le mani in tasca

tagliati le mani.



Nero su bianco


La penna non è stata posata sulla carta la carta

è ancora tutta bianca
bianca è la data
bianchi luogo ora

provenienza destinazione

perché percome

e quando chino sulla mia vita scrivo

l’atto di presenza
mi effondo mi circondo di parole

copro colmo comando
parole
l’assenza certifico
attesto la finzione.

Bartolo Cattafi (Barcellona Pozzo di Gotto 1922 – Milano 1979) esordisce in poesia con la plaquette Nel centro della mano (1951), cui seguono Partenza da Greenwich (1955) e Le mosche del meriggio (1958). La pubblicazione de L’osso, l’anima (1964), raccolta in cui confluiscono anche le poesie di Qualcosa di preciso (1961), segna il vertice della sua prima fase creativa. Dopo un silenzio quasi decennale, torna alla scrittura pubblicando, oltre una serie di pregevoli plaquette e libri d’artista, altre sei raccolte di poesia, di cui le ultime due uscite postume: L’aria secca del fuoco (1972), La discesa al trono (1975), Marzo e le sue idi (1977), L’allodola ottobrina (1979), Chiromanzia d’inverno (1983) e Segni (1986).



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Testi selezionati da Tutte le poesie (Le Lettere, 2019)

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