ATTILA JÓZSEF
Poesie scelte
Attesa
Sempre ti attendo. L’erba è rugiadosa.
Anche gli alberi grandi dalle chiome
piene d’orgoglio aspettano. Io sono
rigido e vacillante a volte. È tetra
la notte per chi è solo.
Se tu venissi, si farebbe il prato
liscio: e silenzio, gran silenzio.
Ma udiremmo una musica notturna
misteriosa; sulle nostre labbra
canterebbero i cuori e lentamente
ci fonderemmo, offerti al rosso ardore
d’un profumato altare,
nell’infinito.
Chi nell’anima nostra...
Dalle fronti di sterili colline
pensieri scrutatori abbiam levato;
su, su, alle grandi altezze,
apparecchi lanciamo;
le loro ricadenti traiettorie,
e immense, sono corde,
limiti posti al regno degli uccelli.
Pattiniamo lontano sulla terra –
locomotive –: ma domani briglie
getteremo da navi elettriche sui mari
irti e nitrenti.
Ma uomini, uomini,
chi tornerà a sapere nuovamente
che bisogna pulire il nostro desco,
chi mai dire potrà alle nostre donne
che debbono spazzar via la tristezza,
chi farà fiorire dei giardini
nei nostri occhi, chi mai stanerà
l’anima nostra – chi? – dentro di noi?
E solo ci stupiamo della vita
Se sorride, è una stella il suo sorriso,
ma se ho sete, è un ruscello di freschezza:
sino ai cieli può crescer la mia cara,
ma baciarla è concesso solo a me.
I suoi capelli sono notte ed oro,
sono i suoi occhi boschi rugiadosi,
mi getterei, se me lo permettesse,
dinanzi all’uscio, come uno stoino.
Si cela, sotto il nostro dire, il bacio,
si avvicina furtivo ai suoi fratelli.
Il prato può sognare molte cose
belle, il cuore dell’erba è la mia cara.
Di sera i baci scappano con noi;
e percorrendo lo spazio del mondo
ci corichiamo sul cielo dell’alba,
e solo ci stupiamo della vita.
Vedi?
L’incendiato treno del giorno con fragore
passò dinanzi alla mia soglia indifferente.
Va,
l’impronta dei tuoi pedi
non lo addolora più.
Silenzio,
un gorgoglio soltanto: rendo al fiume
il pesce grasso;
un frullo: rendo al prato
il fragile volatile.
Va pure:
il fiore
ricoprirà la foglia mutilata.
Vedi?
Già si fa sera.
Dormi bene
È una bella serata. Dormi bene.
Stan per andare a letto i miei vicini,
già si sono avviati
anche gli scalpellini. Risuonava
lontana, chiara la pietra,
e il martello e la strada.
Ora è sceso il silenzio.
Fu molto tempo fa,
quando ti ho vista.
Le tue braccia operose sono fresche
come questa fiumana di silenzio.
Non mormora, ma scorre lentamente;
così adagio che accanto ad essa gli alberi
i pesci e anche le stelle
si addormentano.
Io resto tutto solo.
Sì, sono stanco, ho lavorato molto;
dormirò anch’io alla fine.
Dormi serena.
Certo, anche tu sei triste.
Per questo io sono triste.
C’è silenzio.
Ora i fiori perdonano.
Ti benedico...
Ti benedico con la tristezza, con la gioia,
ti custodisco gelosamente con ciò che ho d’amore;
ti custodisco con palme che chiedono,
con campi di frumento, con le nuvole.
Il tuo scalpiccio è rovina che dà musica,
il mio muro contro di te è un crollo eterno,
mi curvo sulla sua ombra barcollante,
mi involto nel tuo alito.
Non importa se mi ami o se non mi ami,
se mescolo il tuo cuore al mio cuore;
ti vedo, ti ascolto, ti canto,
rispondo in te ad un Dio.
La foresta si stira nell’alba,
crescono le sue mille braccia protese,
strappa la luce dal cielo,
ricopre con essa il suo cuore amoroso.
Metti la mano
Metti la mano
sulla mia fronte
come se fosse
mia la tua mano.
Fammi la guardia
come chi uccide,
come se fosse
tua la mia vita.
Amami, come
se fosse bene,
come il mio cuore
fosse il tuo cuore.
Compleanno
Trentadue anni compio:
è una sorpresa questa
poesia,
un gingillo,
un regalo che offro
nell’angolo di un caffè
a me stesso.
Fuggiti
i miei anni, e non vidi
mai l’ombra di un salario
sinora.
Oh, patria mia!
Sì, potevo insegnare
e non scarabocchiare
da povero
scrittore.
Ma mi espulse da Szeged
un tipo strano, della
Università
signore.
Mi colpì scelto e crudo
pei versi «Non ho padre».
La patria,
a spada tratta,
contro di me difese.
Mi ricordo il suo ardore,
il suo nome.
Balbetta:
«Mai lei su questa terra
insegnerà, finché
mi rimanga
del senno».
Ride. Se il signor Horger
è felice che il nostro
poeta
più non studi,
è una futile gioia:
io diverrò maestro
al mio popolo
intero.
Mio Signore
Dinanzi alle mie cose ti nascondo,
mio Signore, e ti voglio tanto bene.
Fosse lo strillonaggio il tuo mestiere,
io ti sarei d’aiuto nel gridare.
Se ti mettessi a lavorare i campi,
ti aiuterei anche allora, per ogni
necessità. Sarei guida sapiente
e buona ai tuoi cavalli, li amerei.
O piuttosto arerei sulla tua traccia,
anch’io la mano ferma sulla stiva:
starei attento, se il terreno è riarso
dal sale, per pigiar più forte il ferro.
Custodisci i germogli? Eccomi pronto
a scacciare metà delle cornacchie.
Mai, di nessuna delle tue fatiche
ti coglierebbe stanchezza, con me.
Se tu ridessi, anch’io sarei felice:
ti siederei accanto dopo cena,
tu ti faresti prestare la pipa,
un poco: io tutto ti direi, a lungo.
Attila József (Budapest, 11 aprile 1905 – Balatonszárszó, 3 dicembre 1937) è considerato uno dei più importanti poeti ungheresi del XX secolo. Il padre, operaio, emigrò in America nel 1907 e la Lega per l’infanzia lo affidò a genitori adottivi finché, cinque anni dopo, la madre lo riprese con sé. Svolse i più diversi mestieri, tra cui quello di contabile in una banca. S’iscrisse alla facoltà di filosofia dell’Università di Szeged, indi a Vienna, e poi, sovvenzionato da alcuni amici, alla Sorbona, ma rientrò a Budapest senza aver terminato gli studi. Per un certo tempo diresse la rivista letteraria «Szép Szó». Fu impiegato presso l’Istituto del Commercio Estero, però dovette lasciare il posto per una grave forma di neurastenia che lo condusse al suicidio.
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Testi sezionati da Poesie (trad. di U. Albini, Lerici, 1962)