ARSENIJ TARKOVSKIJ
Poesie scelte
Il manoscritto
Ad A.A. Achmatova
Ho finito il libro e ho messo il punto,
non ho potuto rileggere il manoscritto.
La mia sorte si è consumata tra le righe
mentre l’anima mutava la scorza.
È così che il figliol prodigo si strappa la camicia dalle spalle,
è così che il sale dei mari e la polvere delle vie terrene
sono benedette e maledette dal profeta
andato da solo incontro agli angeli.
Sono colui che è vissuto nel proprio tempo
senza essere sé. Sono il minore della famiglia
degli uomini e degli uccelli, ho cantato assieme a tutti gli altri,
e non lascerò il banchetto dei viventi:
blasone autentico del loro onore di famiglia,
vocabolario diretto dei loro legami alla radice.
***
Studio su un libro di pietra il linguaggio dell’eterno,
scivolo tra due macine come un chicco di grano nel rotare delle pietre,
sono per intero già immerso nello spazio a due dimensioni,
il mulino della vita e della morte m’ha spezzato la spina dorsale.
Cosa fare, o pastorale d’Isaia, della tua rettitudine?
La pellicola senza tempo, né alto, né basso, è più fine d’un capello.
Nel deserto il popolo si radunava sui massi, e nell’arsura
la pianeta di stuoia da re mi recava sollievo alla pelle.
***
E lo sognavo, e lo sogno,
e lo sognerò ancora, una volta o l’altra,
e tutto si ripeterà, e tutto si realizzerà,
e sognerete tutto ciò che mi apparve in sogno.
Là, in disparte da noi, in disparte dal mondo
un’onda dietro l’altra si frange sulla riva,
e sull’onda la stella, e l’uomo, e l’uccello,
e il reale, e i sogni, e la morte: un’onda dietro l’altra.
Non mi occorrono le date: io ero, e sono, e sarò.
La vita è la meraviglia delle meraviglie, e sulle ginocchia della meraviglia
solo, come orfano, pongo me stesso,
solo, fra gli specchi, nella rete dei riflessi
di mari e città risplendenti tra il fumo.
E la madre in lacrime si pone il bimbo sulle ginocchia.
***
Da bimbo m’ammalai
per la fame e per la paura. Stacco la crosticina
dalle labbra: vi passo sopra la lingua; rammento
il sapore fresco e un po’ salato.
E sempre vado, e sempre vado, vado,
sto seduto sulla scala nell’atrio, mi scaldo,
me ne vado vaneggiando, come seguissi il flauto
dell’accalappiatopi nel fiume, mi siedo: mi scaldo
sulla scala; e a tratti mi scuote la febbre.
E mia madre sta ferma, mi fa un cenno di mano, quasi
fosse poco lontano ma non ci si potesse accostare:
se m’accosto un po’: sta ferma a sette passi,
mi fa un cenno di mano; mi accosto: sta ferma
a sette passi, mi fa un cenno di mano.
Sentii
caldo, mi sbottonai il colletto, mi stesi,
ed ecco squillarono le trombe, la luce mi colpì
le tempie, i cavalli si lanciarono al galoppo, mia madre
via sul selciato, mi fa un cenno di mano:
ed è volata via...
e ora sogno
sotto i meli un bianco ospedale,
e un bianco lenzuolo sotto la gola,
e un bianco dottore mi osserva,
e bianca mi sta ai piedi la sorellina
e muove le ali. E sono rimasti.
Mia madre è venuta, m’ha fatto un cenno di mano:
ed è volata via...
***
Odore di umida terra spirò dalla finestra,
putredine d’aceto più inebriante del vino;
la madre s’appressò e guardò alla finestra,
e spirò odore di terra dalla finestra.
– Nel languore invernale, nella casa di tua madre
dormi, come un chicco di ségala nella terra nera,
e non darti pensiero della tua fine mortale.
Senza sognare, come Lazzaro nella tomba,
dormi fino a primavera nel grembo di tua madre:
uscirai dalla tomba con una verde corona.
***
Un lampioncino rosso sta sulla neve.
Chissà perché non riesco a ricordarlo.
Forse è un foglietto-orfanello.
forse è un brandello di garza,
forse è un fringuello dal petto rosso
uscito a volteggiare sulla distesa di neve.
Forse è che si sta burlando di me
il nebbioso tramonto di questo giorno dannato.
***
Nell’ultimo mese dell’autunno, sulla china
della mia amarissima vita,
colmo di tristezza, entrai
in un bosco senza foglie e senza nome.
Era lambito fino all’orlo da un bianco-lattescente
vetro di nebbia. I rami canuti
erano rigati da quelle lacrime pure che
solo gli alberi versano alla vigilia
dell’inverno che scolorisce ogni cosa.
Ma ecco accadde il miracolo: al tramonto
baluginò da una nube un lampo azzurrino,
e un raggio lucente penetrò, come in giugno,
dai giorni venturi nel mio passato.
Gli alberi piangevano alla vigilia
delle opere buone e dei munifici doni
delle liete bufere turbinanti nel turchino,
menarono le cinciallegre il ballo in tondo,
come mani sulla tastiera
s’alzavano da terra alle note più alte.
L’orbita
I
Nell’universo il nostro intelletto felice
innalza una dimora insicura.
Uomini, animali e angeli vivono
della sua sferica tensione.
Non abbiamo ancora concepito il bambino
che sotto i piedi già gli s’inarca
verso il nulla una membrana
sulla sua orbita circolare.
II
Il nostro sangue non è geloso della casa,
ma s’apre uno squarcio nel futuro
poiché quanto è terreno a ciò che è terreno
pone un limite qui sulla terra.
Alla madre impazzita appare in sogno
lo stridore della quadriga,
Fetonte, e il suo cocchio,
e i purpurei cubi di pietra.
III
Sullo spazio e sul tempo dall’alto
porremo le palme delle mani,
ma capiremo che nella corona del potere
è più preziosa la stella della miseria,
della miseria, dell’inanità, delle preoccupazioni
per il proprio amaro tozzo di pane,
e con le costellazioni aliene faremo
i conti sulla madre terra.
***
Si sentono il ferro e il marciume delle patate,
la polvere dei lager e il sale delle alici.
Dov’è il tuo nome, dove le tue ali?
Il Vij si rizza i baffi alla tartara.
Chi sei ora? Né una croce, né una traccia,
la chiatta borboglia sul fiume fondo,
cielo nero e argilla pestata
d’una focaccia cruda nella mano.
Dice: sollevatemi le palpebre!
Segna i villaggi col dito di ferro,
la terra rugginosa e gli ontani sciancati
li segna e li annienta colla fame.
Dice: sollevatemi le palpebre!
Come non sollevargliele, moriresti per niente.
Dỳrbala-àrbala-dàrbala-àrbala,
non si riesce a capire che altro borbotti.
Ti lega da vivo i tendini in un nodo,
con lo scorbuto della tajga gioca d’azzardo,
si spande in gelo sull’assenzio,
se ti sbatte nel fosso, addio, caro mio.
***
Da bimbo mi facevano paura le piante:
il loro fogliame mi strillava alle orecchie,
dalle finestre entravano come ombre
le loro anime ostili.
Capitava che già a maggio
festeggiassero il proprio sabba. A luglio –
l’una spezzando gli steli, i rami l’altra –
si mettevano in cammino ubriache:
l’acacia, il luppolo, la pulmonaria,
il verbasco, il rìcino,
il farfaro, il frassino, l’acetosella,
il tremolo, la frangola, il viburno...
Le une come spalle zingaresche,
con fischi di cosacchi le altre.
La tempesta qua e là per la Russia
scagliava loro dei bengala.
Ed era soltanto l’inizio.
Irretita in una lite funesta,
quell’estate la sorte cinse
d’una corona di dolore il nostro popolo.

Arsenij Tarkovskij nasce il 25 giugno 1907 a Elizavetgrad, oggi Kirovograd, in Ucraina. È all’ambiente familiare che deve l’amore per la letteratura e le lingue – il padre è poliglotta e autore di racconti e saggi – come anche la conoscenza del pensiero di Grigorij Skovoroda. Nella seconda metà degli anni Venti frequenta i Corsi Superiori Statali di Letteratura e scrive corsivi su «Il fischio», rivista dei ferrovieri, a cui collaborano anche Bulgakov, Olesa, Kataev, Il’f e Petrov. Tra il ’29 e il ’30 inizia a scrivere poesie e drammi in versi per la radio sovietica, ma nel ’32, accusato di misticismo, è costretto ad interrompere la sua collaborazione. Nello stesso anno nasce il figlio Andrej. Inizia a tradurre poesie dal turkmeno, ebraico, arabo, georgiano, armeno. Nel dicembre ’43, dopo essere stato insignito dell’Ordine della Stella Rossa per il suo eroismo in guerra, è ferito gravemente e gli viene amputata una gamba. Nel ’46 viene rifiutata l’edizione del suo primo libro in quanto i suoi versi vengono ritenuti «nocivi e pericolosi». Solo nel ’62 esce il primo volume di poesie: Neve imminente, cui seguiranno nel ’66 Alla terra ciò che è terreno, nel ’69 Il messaggero, nel ’74 Poesie, nel ’78 Le montagne incantate, nel 1980 Giornata d’inverno, nel 1982 Opere scelte. Poesie. Poemi. Traduzioni (1929-1979), nel 1983 Poesie di vari anni. Nel 1986 muore in Francia il figlio Andrej. Nel 1987 esce Dalla giovinezza alla vecchiaia, titolo deciso dalla casa editrice contro il volere dell’autore, e Essere se stesso. Muore a Mosca il 27 maggio 1989.
*
Testi selezionati da Stelle tardive. Versi e prosa (trad. di G. Zappi, Giometti & Antonello, 2017)