ADAM ZAGAJEWSKI
Poesie scelte
Ode alla molteplicità
Non capisco tutto e mi rallegro
persino che il mondo come un oceano
inquieto superi la mia capacità
di comprendere il senso dell’acqua, della pioggia,
dei bagni nello Stagno del Fornaio, vicino
al confine boemo-tedesco, nel settembre
del 1980; dettaglio questo senza particolare
significato, un profondo stagno germanico.
Che l’Ego in crisi di ossigeno
respiri tranquillo, un nuotatore taglia la linea
del meridiano, è sera, le civette si svegliano
dal sonno diurno, in lontananza
rombano pigramente le auto. Chi per una volta
ha sfiorato la filosofia è perduto,
non lo salverà la poesia, resterà
sempre, rimanenza
incalcolabile, la nostalgia. Chi per una volta ha conosciuto
la folle corsa della poesia più non proverà
la quiete petrosa della prosa familiare
dove ogni capitolo è nido
di una generazione. Chi per una volta è vissuto non
dimenticherà la delizia mutevole delle
stagioni, persino le bardane gli appariranno in
sogno e le ortiche e i ragni, solo
un poco più brutti delle rondini. Chi per una volta
ha incontrato l’ironia sbufferà ridendo
durante la lezione del profeta, chi per una volta
ha pregato non solo con le labbra asciutte
ricorderà la presenza di una strana eco
rimbalzata da una parete. Chi per una volta ha
taciuto non vorrà parlare durante
il dessert, chi è stato ustionato dallo shock
dell’amore farà ritorno ai libri
con volto mutato.
Rimani dritta, anima singola, di fronte
all’eccesso. Due occhi, due mani,
dieci dita ingegnose e
un solo Ego, un quarto d’arancia,
la più giovane delle sorelle. Il piacere
dell’udito non guasta il piacere
della vista, ma l’ebbrezza della libertà distrugge
la pace degli altri sensi quieti.
La pace, un nulla spesso, pieno di dolce
succo come una pera a settembre.
Brevi istanti di felicità svaniscono
sotto una slavina di ossigeno, d’inverno una cornacchia
solitaria batte il becco sulla bianca distesa
gelata del lago, una coppia di picchi impaurita
dall’accetta cerca sotto la mia
finestra un pioppo abbastanza malato.
Una donna dall’aria assente scrive
lunghe lettere e la nostalgia si gonfia come
l’oppio; in un museo egizio un papiro
bruno è intriso della stessa
nostalgia, più antica di alcuni
millenni, incrollabile e intatta.
Le lettere d’amore vanno sempre
a finire nei musei, i curiosi sono più
ostinati degli innamorati. L’Ego avido
trangugia l’aria, la ragione si risveglia
dal sonno diurno, il nuotatore esce
dall’acqua. Una donna avvenente posa per
la felicità, gli uomini fingono di essere
più coraggiosi di quanto non siano veramente,
il museo egizio non cela le debolezze
umane. Esistere, per esistere ancora,
forse offrendosi in affitto
a una delle gelide stelle. E talvolta
beffarsi di lei che è fredda e viscida
come una rana nello stagno. La poesia cresce sulla
contraddizione, ma non la ricopre.
Dalla vita degli oggetti
La pelle levigata degli oggetti è tesa
come la tenda di un circo.
Sopraggiunge la sera.
Benvenuta, oscurità.
Addio, luce del giorno.
Siamo come palpebre, dicono le cose,
sfioriamo l’occhio e l’aria, l’oscurità
e la luce, l’India e l’Europa.
E all’improvviso sono io a parlare: sapete,
cose, cos’è la sofferenza?
Siete mai state affamate, sole, sperdute?
Avete pianto? E conoscete la paura?
La vergogna? Sapete cosa sono invidia e gelosia,
i peccati veniali non inclusi nel perdono?
Avete mai amato? Vi siete mai sentite morire
quando di notte il vento spalanca le finestre e penetra
nel cuore raggelato? Avete conosciuto la vecchiaia,
il lutto, il trascorrere del tempo?
Cala il silenzio.
Sulla parete danza l’ago del barometro.
Prova a cantare il mondo mutilato
Prova a cantare il mondo mutilato.
Ricorda le lunghe giornate di giugno
e le fragole, le gocce di vino rosé.
Le ortiche che metodiche ricoprivano
le case abbandonate da chi ne fu cacciato.
Devi cantare il mondo mutilato.
Hai guardato navi e barche eleganti;
attesi da un lungo viaggio,
o soltanto da un nulla salmastro.
Hai visto i profughi andare verso il nulla,
hai sentito i carnefici cantare allegramente.
Dovresti celebrare il mondo mutilato.
Ricorda quegli attimi, quando eravate insieme
in una stanza bianca e la tenda si mosse.
Torna col pensiero al concerto, quando la musica esplose.
D’autunno raccoglievi ghiande nel parco
e le foglie volteggiavano sulle cicatrici della terra.
Canta il mondo mutilato
e la piccola penna grigia persa dal tordo,
e la luce delicata che erra, svanisce
e ritorna.
A maggio
Camminando nel bosco, in un’alba di maggio,
chiedevo, dove siete, anime
dei morti. Dove siete, giovani
scomparsi, dove siete, ormai del tutto
mutati.
Un grande silenzio regnava nel bosco
e udivo le foglie verdi sognare,
udivo i sogni della corteccia da cui nascono
barche, navi e vele.
Poi a poco a poco gli uccelli si fecero
sentire, cardellini, tordi e merli nascosti
nei balconi dei rami; ognuno parlava a suo modo,
con voce diversa, senza chiedere nulla, senza
amarezza o rimpianto.
E capivo che voi siete nel canto,
inafferrabili come la musica, indifferenti come
le note, lontani da noi quanto noi
da noi stessi.
Lava
E se Eraclito e Parmenide
avessero ragione contemporaneamente
e due mondi esistessero affiancati
uno tranquillo, l’altro folle; una freccia
scocca immemore, e l’altra indulgente
la osserva; lo stesso flutto si frange e non si frange,
gli animali nascono e muoiono nello stesso istante,
le foglie di betulla giocano con il vento e al contempo
si struggono in una crudele fiamma rugginosa.
La lava uccide e serba, il cuore batte e viene colpito,
c’era la guerra, la guerra non c’era,
gli ebrei sono morti, vivono gli ebrei, le città bruciarono,
le città rimangono, l’amore avvizzisce, il bacio è eterno,
le ali dello sparviero devono essere brune,
tu sei sempre con me, anche se non ci siamo più,
le navi affondano, la sabbia canta e le nuvole
vagano come veli nuziali sfilacciati.
Tutto è perduto. Tanto incanto. I colli
reggono cauti lunghi stendardi boscosi,
il muschio sale sul campanile di pietra della chiesa
e con labbra minute timidamente loda il Settentrione.
Al crepuscolo i gelsomini brillano come lampade
folli stordite dalla propria luce.
Nel museo davanti a una tela scura
si stringono pupille feline. Tutto è finito.
I cavalieri galoppano su cavalli neri, il tiranno scrive
una sgrammaticata condanna a morte.
La giovinezza si dissolve nell’arco
di un giorno, i volti delle fanciulle si fanno
medaglioni, la disperazione volge in estasi
e i duri frutti delle stelle crescono nel cielo
come grappoli d’uva e la bellezza dura, tremula, immota
e Dio c’è e muore, la notte torna a noi
sul fare della sera, e l’alba è brizzolata di rugiada.
La sconfitta
Davvero sappiamo vivere solo dopo la sconfitta,
le amicizie si fanno più profonde,
l’amore solleva attento il capo.
Perfino le cose diventano pure.
I rondoni danzano nell’aria,
a loro agio nell’abisso.
Tremano le foglie dei pioppi,
solo il vento è immoto.
Le sagome cupe dei nemici si stagliano
sullo sfondo chiaro della speranza. Cresce
il coraggio. Loro, diciamo parlando di loro, noi, di noi,
tu, di me. Il tè amaro ha il sapore
di profezie bibliche. Purché
non ci sorprenda la vittoria.
La stanza
A Derek Walcott
La stanza in cui lavoro è un esaedro
che assomiglia a un dado da gioco.
Là dentro un tavolo di legno
dal duro profilo contadino,
una pigra poltrona e una teiera
dal labbro absburgico sporgente.
Alla finestra vedo qualche albero stentato,
esili nuvole e bimbi dell’asilo,
vocianti, sempre allegri.
A volte in lontananza scintilla un parabrezza
o, più in alto, la squama argentea di un aereo.
È evidente, gli altri non perdono tempo
mentre io lavoro, cercano avventure
sulla terra o nell’aria.
La stanza in cui lavoro è una camera oscura.
Ma cos’è il mio lavoro –
lunghe attese, immobile,
pagine sfogliate, riflessione paziente,
una passività poco gradita
a un giudice dal cupido sguardo.
Scrivo lentamente, come se potessi vivere duecent’anni.
Cerco immagini che non ci sono,
e se ci sono, sono ripiegate e riposte
come gli abiti estivi durante l’inverno,
quando il gelo screpola le labbra.
Sogno la concentrazione totale; se la trovassi
certamente smetterei di respirare.
Forse è bene che non riesca a fare molto.
Eppure sento il sibilare della prima neve,
la delicata melodia della luce del giorno
e il cupo brontolio della metropoli.
Bevo da una piccola fonte,
la mia sete è più grande dell’oceano.
Parla pacatamente
Parla pacatamente: sei più vecchio
di quello che a lungo sei stato; sei più vecchio
di te stesso – e ancora non sai
cosa siano l’assenza, la poesia, l’oro.
Un’acqua bruna ha inondato le vie; una breve tempesta
ha scosso questa piatta città sonnolenta.
Ogni tempesta è un addio, come se centinaia
di fotografi roteassero su di noi, fissando con il flash
attimi di panico e di angoscia.
Sai cos’è il lutto, la disperazione tanto violenta
da soffocare il ritmo del cuore e il futuro.
Hai pianto fra estranei, in un negozio moderno
dove svelto continuava a girare il denaro.
Hai visto Venezia e Siena e, sulle tele come nelle vie,
tristi giovani Madonne che sognavano di essere
ragazze come tante e ballare a carnevale.
Hai visto piccole città, non certo belle,
gente vecchia, spossata dal tempo e dalle sofferenze.
Nelle icone medioevali brillavano gli occhi
di santi bruni, occhi ardenti di fiere.
Raccoglievi sassolini sulla spiaggia, a la Galère,
e di colpo avvertivi una così grande tenerezza
– per loro e per il pino snello, per coloro
che erano lì con te e per il mare
che è davvero possente, ma molto solo –
così grande, come se tutti fossero orfani
della stessa casa, separati per sempre
e condannati solo a vedersi per brevi istanti
nelle fredde prigioni del presente.
Parla pacatamente: non sei più giovane,
l’abbagliante incanto deve accordarsi con settimane di digiuno,
devi scegliere, rinunciare, temporeggiare
e parlare a lungo con gli emissari di paesi aridi
e di labbra screpolate, devi aspettare,
scrivere lettere, leggere libri di cinquecento pagine.
Parla pacatamente. Non rinunciare alla poesia.
Là, dove il respiro
Sta sulla scena
senza alcuno strumento.
Appoggia le mani sul petto,
là dove nasce il respiro
e dove si spegne.
Non sono le mani a cantare
e nemmeno il petto.
Canta ciò che tace.
Adam Zagajewski è nato il 21 giugno 1945 a Leopoli (ora L’viv, in Ucraina), città che ha lasciato quell’anno stesso insieme alla sua famiglia, espulsa dai sovietici che se ne erano impadroniti nel 1944. Cresciuto a Gliwice, Slesia, e cioè in quei territori tedeschi che nel dopoguerra furono annessi alla Repubblica Popolare di Polonia, Z. ha studiato psicologia e filosofia all’Università Jagellonica di Cracovia, diventando ben presto uno dei protagonisti della corrente «Nowa Fala» o «Generazione del ’68», che riuniva i giovani poeti più critici nei confronti del regime. Ha pubblicato la sua prima raccolta, Komunikat, nel 1972. È stato tra i firmatari della Lettera dei 59 (1975), sottoscritta da sessantasei intellettuali polacchi per protestare contro l’introduzione nella Costituzione di paragrafi riguardanti l’alleanza con l’Unione Sovietica e il ruolo-guida del Partito Operaio Unificato Polacco. Dopo aver vissuto a lungo all’estero, prima a Berlino e poi a Parigi, è tornato a risiedere a Cracovia nel 2002. Insignito del Neustadt International Prize for Literature (2004), del Premio Heinrich Mann (2015) e del Premio Principessa delle Asturie (2017), ha insegnato per anni all’Università di Chicago. È morto il 21 marzo 2021 a Cracovia.
*
Testi selezionati da Dalla vita degli oggetti (trad. di K. Jaworska, Adelphi, 2012)