MARINA CVETAEVA
Poesie scelte
La Sibilla – al bambino
Vieni vicino al mio petto,
più stretto:
nascere, piccolo, è cadere nel tempo.
Dal non-dove, non-terra,
così rovinosa
discesa!
Da spirito in – polvere!
Piangi, bambino, per te, per tutti:
nascere – è cadere nel corpo!
Piangi, piccolo, per il futuro, e ancora:
nascere – è cadere nel giorno!
Nel tempo
sepolcro...
Dov’è l’incendio dei suoi prodigi?
Piangi, bambino, venuto – al mondo!
Dov’è la pena dei suoi tesori?
Piangi, bambino, venuto – al sangue!
– al quando
– al conto...
Ma ti alzerai! Ciò che chiamiamo morte
è cadere – nell’alto.
Ma tu – vedrai! Le palpebre chiuse
sono: venire alla luce.
Dall’oggi –
nel sempre.
La morte, bambino, è ritorno.
La morte è andare a ritroso!
Per – l’aria! a – nuoto! a –
scesa: indietro: in dentro – in e-
terno.
I poeti
I
Da lontano – il poeta prende la parola.
Le parole lo portano – lontano.
Per pianeti, sogni, segni... Per le traverse vie
dell’allusione. Tra il sì e il no il poeta,
anche spiccando il volo da un balcone
trova un appiglio. Giacché il suo
è passo di cometa. E negli sparsi anelli
della causalità è il suo nesso. Disperate –
voi che guardate il cielo! L’eclisse del poeta
non c’è sui calendari. Il poeta è quello
che imbroglia in tavola le carte,
che inganna i conti e ruba il peso.
Quello che interroga dal banco,
che sbaraglia Kant,
che sta nella bara di Bastiglie
come un albero nella sua bellezza...
È quello che non lascia tracce,
il treno a cui non uno arriva
in tempo...
Giacché il suo
è passo di cometa: brucia e non scalda,
cuoce e non matura – furto! scasso! –
tortuoso sentiero chiomato
ignoto a tutti i calendari...
II
Ci sono al mondo esseri superflui,
creature in più, aggiunte senza peso.
(Assenti dagli elenchi e dai prontuari,
inquilini dei pozzi più neri.)
Ci sono al mondo esseri cavi, esseri presi
a spinte, muti: letame
e chiodo per gli strascichi di seta.
Ripugnano anche al fango delle ruote.
Ci sono al mondo diafani, invisibili:
(screziati dal marchio della lebbra!)
Ci sono Giobbe, che potrebbero invidiare
Giobbe... ma ai poeti, a noi poeti,
noi paria e pari a Dio –
è dato, straripando dalle rive,
rotti gli argini, rubare
anche le vergini agli dèi.
III
Cieca e figliastra – che farò nel mondo
dei figli e dei vedenti? Dove la passione
arranca su scarpate di anatemi?
Dove chiamano pianto
il raffreddore?
Canora di corpo e di mestiere
cosa farò – afa in Siberia, neve nel Sahara! –
di tutte le lievi mie ossessioni
nel ponderoso regno
delle stadere?
Cosa farò – primogenito e cantore –
nel mondo dove il più nero è grigio,
dove tengono il cuore sottovetro?
Cosa farò, smisurata, nell’impero
delle misure?
Insinuarsi
E, forse, la vittoria vera
su tempo e gravità: passare
senza lasciare tracce, senza
proiettare ombra
sui muri...
Forse – con la rinuncia
prendere? Cancellarsi da ogni specchio?
Come Lermontov al Caucaso, insinuarsi
senza turbare le montagne.
E, forse, unico diletto: con le dita
di Bach sfiorare l’organo
senza turbare l’eco.
Disfarsi senza lasciare cenere
per l’urna.
Forse – con il raggiro
prendere? Da tutti gli orizzonti
uscire? Nel tempo come nell’oceano
insinuarsi – senza allarmare le onde...
***
Nostalgia della patria! Da tempo
smascherata molestia! Per me
è assolutamente lo stesso
dove – assolutamente sola –
restare, per quali strade
trascinarmi dai mercati
in case – caserme, ospedali! –
ignare di essere «mie».
Mi è indifferente tra chi
ammutolire, inghiottire la rabbia,
da quali cerchie e ambienti
essere espulsa – e ricacciata sempre
nel cerchio dei miei sentimenti.
Orso della Kamčatka senza banchisa –
dove non adattarmi, non ambientarmi,
dove abbassarmi, umiliarmi – mi è uguale.
Neppure il linguaggio natale
ormai mi lusinga, il suo latteo appello.
Ed è lo stesso in che lingua
non farmi capire dal primo
divoratore di quotidiani,
mungitore di pettegolezzi,
lettore del secolo
ventesimo – io senza età!
Intorpidita, di legno – trave
superstite di uno steccato –
ognuno, ogni cosa mi è uguale,
e più di tutto indifferente
quanto era più mio: natio.
Ogni segno, ogni indizio, ogni data
da me ha cancellato una mano:
anima nata – nel nulla.
Tra tutte le mie malattie –
non una ereditaria.
Così si è curata di me
la madre-patria!
Mi è estranea ogni casa, vuota
ogni chiesa, di niente m’importa.
Ma se per strada di colpo compare
un cespuglio, e soprattutto di sorbo...
Dedica
Sussulto – e giù dal cuore il peso
tutta nell’alto – l’anima!
Lasciami parlare del dolore.
Lasciami – della mia montagna.
Non voglio rattoppare mai
il nero squarcio.
Lasciami cantare del dolore
sulla montagna, in alto.
***
E dunque non devo,
e dunque non posso
piangere – adesso.
Nelle randage alleanze,
nelle nomadi leghe,
si danza e si canta.
E – non si piange.
Con sangue bollente si paga
– non con le lacrime.
«Così, vado io?» Lo sguardo
da parte a parte. Arlecchino
che getta a Pierrette, come un osso,
il più infame primato:
la maestà della fine,
il sipario, l’estrema
battuta. Piombo nel petto!
Sarebbe più bello, coretto, pulito,
più caldo...
I denti
ficcati nei denti:
non piangerò!
L’aguzzo trafigge
la polpa: solo riuscire
a non piangere!
Nelle randage alleanze
si crepa e – non lacrime!
Si brucia e – non lacrime!
Tra cenere e canti
sotterrano i morti
nei sodalizi erranti.
«Così, vado io? A me la prima mossa?»
Come agli scacchi? Del resto, hai ragione,
anche sul patibolo noi
saliamo per prime...
Ti prego, però, non guardarmi!
Il sogno
I
Scendo – stordita – senza ringhiere:
scala infinita.
Avido sbirro, il sogno rovista
i miei misteri. Spenti
i vulcani? Freddi i crateri? Ah, non credete
alla morte delle passioni...
Attento carceriere, su e giù per la prigione,
Morfeo misura i cuori. Ehi, voi,
squallore collettivo!
Che non conoscete la rovina
giù dai tetti! Né – sdraiati sui piumini –
le metamorfosi del volo! Un tonfo:
si incrina il guscio della vita
con la zavorra di mariti e mogli.
Vigile aviatore sulla città nemica –
l’anima sorvola il sogno. Il corpo
sbarra invano ogni sua porta:
già canta il sangue nelle vene.
Con precisione da chirurgo il sogno fruga
le mie ferite. A nudo!
Autopsia... E neanche un buco lassù
in galleria, per celare ai miei occhi veggenti...
Confessore immorale, il sogno rimesta
tutti i miei segreti...
II
Il cervello – una profonda piaga
da decubito. E alla primavera
mancano tre secoli. A letto vado
come a teatro, per sognare:
per vedere il paradiso
di Davide, l’elmo sacro di Achille,
per non vedere il massacro
della vita, i muri, il peso.
Con questo fine io vado
a letto: al lume cieco – vedo.
«Ai piumini non prestate fede!...
Parenti dei cumuli di neve!»
Morbido adescamento, piume,
lenta cattura di gambe e braccia.
Lusinga femminile di madre
che addormenta il bambino.
Dormire! Scoperchiare i sepolcri
delle stanze! E bere dall’azzurro!
Nel letto: come in fondo al lago
dove voi annegate! Guado, fango
dei tropici, marciume, limo
dell’Indostan... Vado
a letto come in un baratro
senza ringhiere.
Elogio del tempo
a Vera Arenskaja
Selciato di fuggiaschi!
Un boato e – a rompicollo,
a perdifiato – ruote! Tempo,
tu mi lasci – indietro!
Acchiàppalo! tra i calendari, nella gabbia
degli abbracci... ma scivola frusciando
il rivolo di sabbia! Tempo,
io non starò – al tuo gioco!
Lancette di quadranti, arterie
di rughe – di Americhe
tutte le scoperte e le sorprese...
Tempo, tu mi ruberai – sul peso!
Mi tradirai: ripudio
di mogli sempre nuove!
Io ti ho già perso,
tempo, treno di diversa
destinazione!
Giacché io sono nata fuori
tempo! Ti sfianchi invano,
non convinci! Califfo per un’ora!
Tempo, io – ti manco!

Marina Ivanovna Cvetaeva nacque a Mosca nel 1892. Fu una delle voci più originali della poesia russa del ventesimo secolo ed esponente di spicco del locale movimento simbolista; il suo lavoro non fu ben visto dal regime staliniano, anche per via di opere scritte negli anni Venti che glorificavano la lotta anticomunista dell’armata bianca, in cui il marito Sergej Jakovlevič Ėfron militava come ufficiale. Si spostò prima a Berlino e poi a Praga nel 1922. Seguendo gli orientamenti della comunità russa emigrata, si trasferì a Parigi nel novembre 1925. Tornò a Mosca insieme al figlio Georgij, detto Mur, nel 1939, con la speranza di ricongiungersi al marito – del quale si erano perse le tracce e che in realtà non era fuggito in Spagna, ma era stato arrestato e fucilato – e alla figlia Ariadna Ėfron, rientrata a Mosca nel 1937 e subito mandata in un campo di lavoro. In uno stato di estrema povertà e d’isolamento dalla comunità letteraria, il 31 agosto 1941 s’impiccò. La riabilitazione della sua opera letteraria e la pubblicazione di molte sue opere avvennero solo vent’anni dopo la sua morte.
*
Testi selezionati da Dopo la Russia e altri versi (trad. di S. Vitale, Mondadori, 1988)