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MARINA CVETAEVA
Poesie scelte

***


Cammini, a me somigliante,

gli occhi puntando in basso.

Io li ho abbassati – anche!

Passante, fermati!


Leggi – di ranuncoli

e di papaveri colto un mazzetto

– che io mi chiamavo Marina

e quanti anni avevo.


Non credere che qui sia – una tomba,

che io ti apparirò minacciando...

A me stessa troppo piaceva

ridere quando non si può!


E il sangue affluiva alla pelle,

e i miei riccioli s’arrotolavano...

Anch’io esistevo, passante!

Passante, fermati!


Strappa uno stelo selvatico per te

e una bacca – subito dopo.

Niente è più grosso e più dolce

d’una fragola di cimitero.


Solo non stare così tetro,

la testa chinata sul petto.

Con leggerezza pensami,

con leggerezza dimenticami.


Come t’investe il raggio di sole!

Sei tutto in un polverìo dorato...

E che almeno però non ti turbi

la mia voce di sottoterra.



***


I versi crescono, come le stelle e come le rose,

come la bellezza – inutile in famiglia.

E, alle corone e alle apoteosi –

una sola risposta: «Di dove questo mi viene?»


Noi dormiamo, ed ecco, oltre le lastre di pietra,

il celeste ospite, in quattro petali.

Mondo, cerca di capire! Il poeta – nel sonno – scopre

la legge della stella e la formula del fiore.



***


La mia strada non passa vicino alla-tua casa.

La mia strada non passa vicino alla-casa di nessuno.


       E tuttavia io smarrisco il cammino

       (specialmente di primavera!)

       e tuttavia mi struggo per la gente

       come il cane fa sotto la luna.


       Ospite dappertutto gradita,

       non lascio dormire nessuno!

       E con il nonno gioco agli ossi,

       e con il nipote – canto.


       Di me non s’ingelosiscono le mogli:

       io sono una voce e uno sguardo.

       E a me nessun innamorato

       ha mai costruito un palazzo.


       Le vostre generosità non richieste

       mi fanno ridere, mercanti!

       Da me stessa mi erigo per la notte

       e ponti e palazzi.


       (Ma ciò che dico – non ascoltarlo!

       È tutto un inganno di donna!)

       Da sola al mattino demolisco

       la mia creazione.


Le magioni – come covoni di paglia – niente!

La mia strada non passa vicino alla-tua casa.



Il tavolo


I


Fedele mio tavolo di scrittura!

Grazie per essere andato

con me per tutte le strade.

Per avermi difeso – come una cicatrice.


Mio mulo da soma e da scrittura!

Grazie per non aver piegato le zampe

sotto il carico, il fardello delle lacrime –

grazie per aver portato e portato.


Severissimo specchio di giustizia!

Grazie per questo, che ti sei messo

(alle tentazioni del mondo argine)

di traverso a tutte le gioie,


a tutte le bassezze – diniego!

Contrappeso di quercia

al leone dell’odio, all’elefante

dell’offesa – a tutto, a tutto.


Mio legno da vivo-mortale!

Grazie per questo, che sei venuto crescendo

con me, a misura dei lavori

da tavolino – ti sei ingrandito, dilatato,


a tal punto esteso – per larghezze

tali, che, spalancata la bocca,

afferratami al bordo del tavolo…

mi allagavo come una spiaggia!


Inchiodatami a te con la prima luce –

grazie per questo, che dietro di me

ti scatenavi! Su tutti i percorsi

mi raggiungevi, come uno scià –


La fuggitiva.

                        – «Indietro, alla sedia!»

Grazie per questo, che tutelavi

e costringevi. Ai non eterni beni

mi strappavi, come un mago –

la sonnambula.

                              Tavolo mio che le cicatrici

delle battaglie hai allineato in colonne

brucianti: purpureo delle vene!

Delle mie imprese colonna!


Colonna dello Stilita, otturatore delle labbra –

tu per me eri – trono, spazio –

colui per me sei stato che per il mare di folle

ebraiche fu l’ardente pilastro!


Sia dunque tu benedetto –

dalla fronte, dal gomito, dalla curva dei ginocchi

sperimentato – orlo del tavolo

come una sega penetrato nel petto!



II


Trentesimo anniversario

d’una unione – più sicura dell’amore.

Io le tue rughe conosco

come anche tu – le mie.


Delle quali – non sei tu – l’amore?

Tu che quinterno su quinterno hai divorato,

e hai insegnato che non c’è – un domani,

che solamente l’oggi – esiste.


E i soldi e le lettere della posta,

tavolo, hai gettato nella corrente!

E ripetevi che d’ogni riga

l’oggi – è l’ultimo termine.


Che minacciavi che col conto dei cucchiai

non si rende merito al Creatore,

che domani mi deporranno –

stupida che sono – sopra di te!



III


Fedele mio tavolo di scrittura!

Grazie per questo, che il tronco

avendomi dato per diventare – tavolo,

sei tuttavia rimasto – vivo tronco!


Con il giovane gioco del fogliame

sul sopracciglio, con la viva corteccia,

con le lacrime di resina viva,

con radici sino in fondo alla terra!



IV


Siamo pari: io da voi divorata,

voi da me – dipinti al vivo.

Ma voi sarete deposti – sul tavolo da pranzo,

io – sulla scrivania.


Per il fatto che, di una jota felice,

non mi curavo delle altrui pietanze,

per il fatto che troppo spesso voi,

voi troppo a lungo pranzavate...


Voi. Con i rutti, io – con i libri,

con il tartufo, io – con il lapis,

coi – con le olive, io – con le rime,

con i sottaceti, io – con i dattili.


Nelle teste – mortali catene –

asparagi di gambo grosso.

Una tovaglia a strisce

da dessert – sia la vostra strada!


Sbuffiamo tabacco dell’Avana

alla vostra destra – e a sinistra.

Una tovaglia olandese di tela

sia per voi – il sudario!...


Come un cappone invece di una colomba

invòlati – anima – durante l’autopsia!

Me nuda invece mi deporranno:

due ali come copertura.



La Sibilla – al bambino


Vieni vicino al mio petto,

più stretto:

nascere, piccolo, è cadere nel tempo.


Dal non-dove, non-terra,

così rovinosa

discesa!

Da spirito in – polvere!


Piangi, bambino, per te, per tutti:

nascere – è cadere nel corpo!


Piangi, piccolo, per il futuro, e ancora:

nascere – è cadere nel giorno!


Nel tempo

sepolcro...


Dov’è l’incendio dei suoi prodigi?

Piangi, bambino, venuto – al mondo!


Dov’è la pena dei suoi tesori?

Piangi, bambino, venuto – al sangue!


– al quando

– al conto...


Ma ti alzerai! Ciò che chiamiamo morte

è cadere – nell’alto.


Ma tu – vedrai! Le palpebre chiuse

sono: venire alla luce.


Dall’oggi –

nel sempre.


La morte, bambino, è ritorno.

La morte è andare a ritroso!


Per – l’aria! a – nuoto! a –

scesa: indietro: in dentro – in e-

                                                            terno.



I poeti


I


Da lontano – il poeta prende la parola.

Le parole lo portano – lontano.


Per pianeti, sogni, segni... Per le traverse vie

dell’allusione. Tra il sì e il no il poeta,

anche spiccando il volo da un balcone

trova un appiglio. Giacché il suo


è passo di cometa. E negli sparsi anelli

della causalità è il suo nesso. Disperate –

voi che guardate il cielo! L’eclisse del poeta

non c’è sui calendari. Il poeta è quello


che imbroglia in tavola le carte,

che inganna i conti e ruba il peso.

Quello che interroga dal banco,

che sbaraglia Kant,


che sta nella bara di Bastiglie

come un albero nella sua bellezza...

È quello che non lascia tracce,

il treno a cui non uno arriva

in tempo...

                      Giacché il suo


è passo di cometa: brucia e non scalda,

cuoce e non matura – furto! scasso! –

tortuoso sentiero chiomato

ignoto a tutti i calendari...



II


Ci sono al mondo esseri superflui,

creature in più, aggiunte senza peso.

(Assenti dagli elenchi e dai prontuari,

inquilini dei pozzi più neri.)


Ci sono al mondo esseri cavi, esseri presi

a spinte, muti: letame

e chiodo per gli strascichi di seta.

Ripugnano anche al fango delle ruote.


Ci sono al mondo diafani, invisibili:

(screziati dal marchio della lebbra!)

Ci sono Giobbe, che potrebbero invidiare

Giobbe... ma ai poeti, a noi poeti,


noi paria e pari a Dio –

è dato, straripando dalle rive,

rotti gli argini, rubare

anche le vergini agli dèi.



III


Cieca e figliastra – che farò nel mondo

dei figli e dei vedenti? Dove la passione

arranca su scarpate di anatemi?

Dove chiamano pianto

il raffreddore?


Canora di corpo e di mestiere

cosa farò – afa in Siberia, neve nel Sahara! –

di tutte le lievi mie ossessioni

nel ponderoso regno

delle stadere?


Cosa farò – primogenito e cantore –

nel mondo dove il più nero è grigio,

dove tengono il cuore sottovetro?

Cosa farò, smisurata, nell’impero

delle misure?



Insinuarsi


E, forse, la vittoria vera

su tempo e gravità: passare

senza lasciare tracce, senza

proiettare ombra


sui muri...       

                     Forse – con la rinuncia

prendere? Cancellarsi da ogni specchio?

Come Lermontov al Caucaso, insinuarsi

senza turbare le montagne.


E, forse, unico diletto: con le dita

di Bach sfiorare l’organo

senza turbare l’eco.

Disfarsi senza lasciare cenere


per l’urna.

                     Forse – con il raggiro

prendere? Da tutti gli orizzonti

uscire? Nel tempo come nell’oceano

insinuarsi – senza allarmare le onde...



***


Nostalgia della patria! Da tempo

smascherata molestia! Per me

è assolutamente lo stesso

dove – assolutamente sola –


restare, per quali strade

trascinarmi dai mercati

in case – caserme, ospedali! –

ignare di essere «mie».


Mi è indifferente tra chi

ammutolire, inghiottire la rabbia,

da quali cerchie e ambienti

essere espulsa – e ricacciata sempre


nel cerchio dei miei sentimenti.

Orso della Kamčatka senza banchisa –

dove non adattarmi, non ambientarmi,

dove abbassarmi, umiliarmi – mi è uguale.


Neppure il linguaggio natale

ormai mi lusinga, il suo latteo appello.

Ed è lo stesso in che lingua

non farmi capire dal primo


divoratore di quotidiani,

mungitore di pettegolezzi,

lettore del secolo

ventesimo – io senza età!


Intorpidita, di legno – trave

superstite di uno steccato –

ognuno, ogni cosa mi è uguale,

e più di tutto indifferente


quanto era più mio: natio.

Ogni segno, ogni indizio, ogni data

da me ha cancellato una mano:

anima nata – nel nulla.


Tra tutte le mie malattie –

non una ereditaria.

Così si è curata di me

la madre-patria!


Mi è estranea ogni casa, vuota

ogni chiesa, di niente m’importa.

Ma se per strada di colpo compare

un cespuglio, e soprattutto di sorbo...



Dedica


Sussulto – e giù dal cuore il peso

tutta nell’alto – l’anima!

Lasciami parlare del dolore.

Lasciami – della mia montagna.


Non voglio rattoppare mai

il nero squarcio.

Lasciami cantare del dolore

sulla montagna, in alto.



***


E dunque non devo,

e dunque non posso

piangere – adesso.


Nelle randage alleanze,

nelle nomadi leghe,

si danza e si canta.


E – non si piange.

Con sangue bollente si paga

– non con le lacrime.


«Così, vado io?» Lo sguardo

da parte a parte. Arlecchino

che getta a Pierrette, come un osso,

il più infame primato:


la maestà della fine,

il sipario, l’estrema

battuta. Piombo nel petto!

Sarebbe più bello, coretto, pulito,

più caldo...

                      I denti

ficcati nei denti:

non piangerò!


L’aguzzo trafigge

la polpa: solo riuscire

a non piangere!


Nelle randage alleanze

si crepa e – non lacrime!

Si brucia e – non lacrime!


Tra cenere e canti

sotterrano i morti

nei sodalizi erranti.


«Così, vado io? A me la prima mossa?»

Come agli scacchi? Del resto, hai ragione,

anche sul patibolo noi

saliamo per prime...


Ti prego, però, non guardarmi!



Il sogno


I


Scendo – stordita – senza ringhiere:

scala infinita.

Avido sbirro, il sogno rovista

i miei misteri. Spenti


i vulcani? Freddi i crateri? Ah, non credete

alla morte delle passioni...

Attento carceriere, su e giù per la prigione,

Morfeo misura i cuori. Ehi, voi,


squallore collettivo!

Che non conoscete la rovina

giù dai tetti! Né – sdraiati sui piumini –

le metamorfosi del volo! Un tonfo:


si incrina il guscio della vita

con la zavorra di mariti e mogli.

Vigile aviatore sulla città nemica –

l’anima sorvola il sogno. Il corpo


sbarra invano ogni sua porta:

già canta il sangue nelle vene.

Con precisione da chirurgo il sogno fruga

le mie ferite. A nudo!


Autopsia... E neanche un buco lassù

in galleria, per celare ai miei occhi veggenti...

Confessore immorale, il sogno rimesta

tutti i miei segreti...



II


Il cervello – una profonda piaga

da decubito. E alla primavera

mancano tre secoli. A letto vado

come a teatro, per sognare:


per vedere il paradiso

di Davide, l’elmo sacro di Achille,

per non vedere il massacro

della vita, i muri, il peso.


Con questo fine io vado

a letto: al lume cieco – vedo.

«Ai piumini non prestate fede!...

Parenti dei cumuli di neve!»


Morbido adescamento, piume,

lenta cattura di gambe e braccia.

Lusinga femminile di madre

che addormenta il bambino.


Dormire! Scoperchiare i sepolcri

delle stanze! E bere dall’azzurro!

Nel letto: come in fondo al lago

dove voi annegate! Guado, fango


dei tropici, marciume, limo

dell’Indostan... Vado

a letto come in un baratro

senza ringhiere.



Elogio del tempo


                                                                a Vera Arenskaja


Selciato di fuggiaschi!

Un boato e – a rompicollo,

a perdifiato – ruote! Tempo,

tu mi lasci – indietro!


Acchiàppalo! tra i calendari, nella gabbia

degli abbracci... ma scivola frusciando

il rivolo di sabbia! Tempo,

io non starò – al tuo gioco!


Lancette di quadranti, arterie

di rughe – di Americhe

tutte le scoperte e le sorprese...

Tempo, tu mi ruberai – sul peso!


Mi tradirai: ripudio

di mogli sempre nuove!

Io ti ho già perso,


tempo, treno di diversa

destinazione!


Giacché io sono nata fuori

tempo! Ti sfianchi invano,

non convinci! Califfo per un’ora!

Tempo, io – ti manco!

Marina Ivanovna Cvetaeva nacque a Mosca nel 1892. Fu una delle voci più originali della poesia russa del ventesimo secolo ed esponente di spicco del locale movimento simbolista; il suo lavoro non fu ben visto dal regime staliniano, anche per via di opere scritte negli anni Venti che glorificavano la lotta anticomunista dell’armata bianca, in cui il marito Sergej Jakovlevič Ėfron militava come ufficiale. Si spostò prima a Berlino e poi a Praga nel 1922. Seguendo gli orientamenti della comunità russa emigrata, si trasferì a Parigi nel novembre 1925. Tornò a Mosca insieme al figlio Georgij, detto Mur, nel 1939, con la speranza di ricongiungersi al marito – del quale si erano perse le tracce e che in realtà non era fuggito in Spagna, ma era stato arrestato e fucilato – e alla figlia Ariadna Ėfron, rientrata a Mosca nel 1937 e subito mandata in un campo di lavoro. In uno stato di estrema povertà e d’isolamento dalla comunità letteraria, il 31 agosto 1941 s’impiccò. La riabilitazione della sua opera letteraria e la pubblicazione di molte sue opere avvennero solo vent’anni dopo la sua morte.



*

Testi selezionati da Dopo la Russia e altri versi (a cura di S. Vitale, Mondadori, 1988) e Poesie (a cura di P.A. Zveremich, Feltrinelli, 1992)

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