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trad. dallo spagnolo di Antonio Bux

La poesia come rituale di osservazione e distacco, come processo cognitivo e di meditazione. Una riflessione che si fa specchio, a volte rotto, altre volto nitido, dell’esistenza, rendendo in maniera efficacemente simbolica l’idea dell’abbandono dell’uomo al suo essere ‘contro natura’. Il panismo qui, difatti, non è consolatorio, non è ritrovamento di ciò che genera, ma constatazione di ciò che è perduto. Questo, in definitiva, è il Narciso inverso che Antonio Cabrera (1958- 2019), uno tra i poeti spagnoli più significativi della sua generazione, ha reso nella sua ricerca dove le immagini hanno spesso un tono filosofico, che chiama il lettore ad un’immersione totale dentro queste frequenze ipnotiche. Così poesia e filosofia si incontrano, nella sommersione del pensiero, nella sua alienazione, anche quando questo si snoda, si snerva verso la ramificazione scarnita (all’apparenza) della poesia. Perché anche nel filosofare ci si perde. E Antonio Cabrera sapeva bene questo. La filosofia del poeta spagnolo sembra perciò perdersi nel corpo per ritrovarsi, poi, nello spirito di ciò che vive, o forse solo nella cancellazione di ciò che dà forma, e che per sempre muore e ritorna.



POESIA E VERITÀ


                                                          A Carlos Marzal


In natura non c’è malinconia,

asseriva Coleridge.

                                       Sono uscito a guardare

tra le nuvole mansuete

una luce somigliante alla luce triste

di cui scrivono i poeti.

Lo splendore solenne e ripetuto

del tramonto che copre l’aranceto

è tutto quel che c’era. Spariva

quel sole tante volte narrato

nei poemi che negano ciò che Coleridge disse,

ma la cui forma inoffensiva e nobile

ho potuto osservare, e non era un cristallo

spento di afflizione.


Poi ho posato gli occhi

su alcune presenze più semplici,

se mai ci fosse in loro l’alito estinto

che oscura le cose essenziali

della natura, e a loro consegna un dono

cupo, una verità ombrosa, già cantata:

né nell’umile vegetazione, né nelle braccia

immobili dell’albero,

né nelle pietre – che sono tempo puro –,

né nella casa in rovina, dove hanno il nido i passeri,

ho visto la malinconia

al dominio.


Così sono tornato dove stavo,

persuaso, sereno, e insieme

completamente avvolto nell’ignoranza nuova

che questa certezza cuce, perché ho visto

che nulla è malinconico in natura

quando non la pensiamo.


                                                   Chi la contempla sente,

forse come Coleridge,

la sola brama d’essere testimone muto

del suo muto fragore,

                                          ma quando la consideri,

trattenendone la luce,

ecco che s’apre, senza rimedio, lì nella coscienza,

l’esausto fiore mentale della malinconia.



IDEA


Mi sono appuntato quest’idea: Non esiste il silenzio.


L’ho scoperto in me mentre guardavo

certe fotografie

che qualcuno scattò in un paesaggio nordico.

Ho visto in loro la rara condizione

di una pianura solitaria,

e solitari pure un palo assorto

e un asfalto remoto.

Sotto la luce rapita, sembrava

fossero presenti nel loro acuto abbandono,

nel limpido legame di quando nessuno guarda.


Non esiste il silenzio.


Come poterlo avere

se tutto contiene vibrazione e luce

e scricchiola da dentro più in là

della muta apparenza?

Ovunque siamo, non ne ascoltiamo sempre

il mormorio o il ritmo?


Non esiste il silenzio.


(Vedo come l’idea estrae da me

le linee di un senso,

in cerca del proprio spessore, e allo stesso tempo

punta al bersaglio in ombra

dove è la sua verità).


Forse silenzio è solo un nome,

un nome usuale anche se sbagliato,

una parola errata che parla, in realtà,

del suono terrestre

che è perduto

in uno spazio alieno e spopolato

dove nessuno lo ascolta.


Non esiste il silenzio.


(L’idea

è già un dardo che sta incrociando l’aria.

Il suo volo è pensiero.

Le mie parole la spinta e il freno.)



MEDITAZIONE DEL CRISTALLO


Dietro il cristallo che lo protegge

c’è un gesto afflitto.

I muscoli di un torso

– il suo pulsare disegnato –

                                                      gemono

nella postura tesa

che li mantiene tra rigore

e fragile eleganza:

una mano sul petto; un braccio alzato

che si piega all’indietro

e accompagna ubbidiente l’inclinazione del volto;

il profilo, intravisto; lo sguardo,

girato verso il fondo di un graffito cieco.

Fisso in quel fondo, la sua ombra lo ripete,

lo offusca

sopra il rovescio impuro.

Su tutto regna il grigio,

nebbioso argento nella luce che dietro al vetro

è dolore, è brama ermetica.


Stranamente,

accanto a quel silenzio disegnato

con rumore e gemito,

il quadro pone,

                                  nel cristallo,

un’altra versione di quel che adesso esiste:

io mi rispecchio in lui se lo contemplo;

dietro di me, le cose si riflettono.


Il mio volto, in primo piano, inabissa il suo sguardo

nel mio sguardo identico. Al di là,

le cose che alle mie spalle sono reali,

nel cristallo, dietro di me,

vacillano e sprofondano:

vedo la porta nel suo improvviso esilio,

dipinta con vernice di luccichio falso

e un pezzo di parete incomprensibile, delicata,

e sullo sfondo, stordite,

alcune cose ultime quasi assenti

galleggiare in soffocata somiglianza.


Nell’occultarti

all’altro lato di questa tanto chiara opacità,

torso inutile, grigio perduto,

in quale limbo ti annulli un istante?

Cos’è questa vertigine

di volti su volti e ombre su ombre?

Cosa sono questi sguardi

che vanno allo splendore e nella luce si fanno torbidi?


Contemplo la bellezza e sono un velo.


Imprevisto cristallo, vetro immutabile,

chi conosce, chi vede, chi non confonde?


01/12/2020

Pardiez

IL NARCISO INVERSO.
TRE TRADUZIONI DA
ANTONIO CABRERA

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