Zanzotto. Nel centenario e decennale
di Giovanna Menegùs
Sono veneta. Ho cinquant’anni, di più anzi. Ho ‘fatto il Classico’. Bazzico la poesia. Date queste premesse, Andrea Zanzotto – di Pieve di Soligo (Treviso), considerato niente meno che il poeta italiano più significativo del secondo Novecento – dovrei conoscerlo, e conoscerlo bene.
No, invece.
Solo per caso (un amico mi manda da leggere una cosa) mi accorgo che Zanzotto era nato nel 1921. Quest’anno dunque ricorre il suo centenario.
Ho poca memoria per le date ma ne avverto il significato e la ritualità, la necessità ritmica persino: sempre più man mano che il tempo, del mondo e mio, passa e fa sentire il proprio passo sulle cose. E mentre il tempo dell’antropocene scorre più convulso verso la sovversione delle stagioni naturali e la probabile catastrofe ambientale, le date della vita di Zanzotto si propongono con una singolare, suggestiva perfezione: a distanza di appena una settimana ricorrono sia i cento anni dalla nascita sia i dieci dalla morte (10 ottobre 1921-18 ottobre 2011), e come altrettante rime interne ai decenni di un’esistenza, in questo 2021 cadono anche i settant’anni dall’esordio in poesia (Dietro il paesaggio, 1951) e i sessanta dalla nascita dei due figli e, insieme, dalla morte del padre (nel maggio 1960 il padre Giovanni muore e il primogenito, che ne riceve il nome, viene alla luce; il secondo figlio, Fabio, segue nel 1961).
Nella tradizione ebraica colui che muore nella stessa data della propria nascita, o in un giorno prossimo ad essa, è considerato un uomo giusto, e certo questo ricorrere di date a scandire le tappe essenziali di un transitus terreno trasmette il senso di qualcosa di giusto.
Ma dicevo: sono veneta, e come se questo non bastasse mi sono cimentata nella poesia. Qualcuno, leggendo i miei versi, commenta con un sorriso di approvazione: Sì, ecco, si sente Zanzotto sullo sfondo. Ma io – penso con disagio e vergogna – Zanzotto non l’ho letto. Non lo conosco. È troppo difficile.
Se non è un caso grave di odio per la poesia questo...
Nella biblioteca della casa in cui sono cresciuta c’era una copia del Galateo in Bosco: la prima edizione, dicembre 1978, comprata da mia madre o forse regalatale da qualcuno. Un oggetto chiuso e autorevole: dubito lei o altri nei dintorni fossero riusciti a leggerlo. La copertina era – è – verde, colore che potrebbe evocare il bosco del titolo ma è reso astratto dalla grafica essenziale, una sorta di quadrato di Maleviĉ. La prefazione di Contini, sunteggiata in quarta di copertina a caratteri piccolissimi, accresceva l’aura dell’opera senza riuscire ad avvicinarla, incutendo ulteriore soggezione.
Al liceo, negli anni Ottanta, ho avuto dei bravi professori, tuttavia nessuno, che io ricordi, ci parlò di Zanzotto. Nemmeno dopo, durante i primi anni Novanta dei miei intensi studi universitari, mi accadde di intercettarlo: è vero che frequentavo (a Milano, in Cattolica) lettere antiche, però i nomi di Montale, Calvino e altri ‘moderni’ capitava pure di sentirli nelle lezioni, e io ero ben attenta ai segnali lanciati in direzione della contemporaneità. La maturità classica la feci a Belluno, che da Pieve di Soligo dista meno di un’ora d’auto. Ma dalle mie parti, come nel resto del Veneto e in tutta Italia credo, ancor oggi Pieve di Soligo e il Montello restano sinonimo di prosecco e funghicoltura (in questi mesi ferve la battaglia per difendere il marchio Doc da un nuovo ammiccante Prosek croato): temo che soltanto in pochi eletti evochino il nome del nostro (?) maggior poeta recente e dei suoi versi.
Zanzotto ‘mi riguarda’, insomma. Non posso esimermi dal farci i conti.
E mi domando, intanto, se sia possibile che in qualche modo io lo abbia letto pur senza leggerlo, senza conoscerlo direttamente, sui testi... In parte perché la sua lezione e dizione circolavano forse ormai nell’aria: come accade con i grandi il suo modello doveva aver improntato altri, essersi trasmesso e diffuso. In parte, mi dico, il paesaggio e i luoghi sono – o: erano, o: sono stati – per me gli stessi (con emozione scopro anche che per un periodo Andrea bambino visse proprio in Cadore: a Santo Stefano, tra 1927 e 1928, al seguito del padre maestro elementare e pittore, oltre che antifascista, e lo assistette mentre questi affrescava una chiesa, di modo che mi viene il desiderio di andare a visitarla, appena possibile: quasi che in quel luogo fuori mano dovessi trovare la comprensione, la chiave)...
Ma al netto di queste considerazioni generali e delle divagazioni personal-geografiche che cosa so io di Zanzotto, quanti suoi versi potrei citare? Io, per dire un ipotetico lettore, per provare a dire noi.
Dunque, conosco lo Zanzotto di «Rivolgersi agli ossari. Non occorre biglietto. / Rivolgersi ai cippi. Con il più disperato rispetto». Li conosco, questi versi dal Galateo in Bosco, grazie a (grazie!) e attraverso Marco Paolini e il suo teatro civile, e il libro che nel 1999 ne trasse: Bestiario veneto. Parole mate (Edizioni Biblioteca dell’Immagine; «Parole mate» è citazione di un titolo di Ernesto Calzavara, altro ‘poeta veneto’: dove ‘veneto’ va sempre inteso in senso antropologico e storico, non regionalistico). Gli ossari, non sarà inutile ricordarlo, sono quelli della Grande Guerra, cioè della Storia tout court, disseminati sul Montello dove si coltivano funghi. Sul palco Paolini recitava i versi e raccontava la Storia e le storie creando un potente tutt’uno: grazie alla voce e alla presenza scenica ossari e cippi, soggetti di scarso appeal e alto rischio retorico, si animavano diventando gli elementi, i protagonisti di un discorso di grande efficacia.
Poi, ricordo l’epigramma «In questo progresso scorsoio / non so se vengo ingoiato / o se ingoio» (In questo progresso scorsoio è diventato il titolo di un libro-intervista pubblicato da Garzanti nel 2009, conversazioni di Zanzotto col giornalista Marzio Breda).
Infine ricordo la formula, anch’essa piuttosto famosa, «gente senza più dialetto», che rimanda alla perdita d’identità linguistica avvenuta col passaggio dai dialetti locali legati alle comunità a un italiano standardizzato e anonimo.
Tre citazioni.
Nient’altro? Nient’altro direi, con la vergogna già confessata.
Eppure, se le considero nell’insieme, queste tre formule – «rivolgersi agli ossari», «progresso scorsoio», «gente senza più dialetto» – formano una sintesi efficace, e mi rimandano alle coordinate tracciate riguardo a Zanzotto da Raboni: al dato forte che di esse ho trattenuto. Raboni parla di antropologia. Afferma cioè che il discorso, per Zanzotto, è «da svolgere sul piano, diciamo, dell’antropologia culturale assai più (o, almeno, oltre che) su quello dello specifico letterario».
Sempre più col trascorrere del tempo il paesaggio zanzottiano e la sua natura non antropizzata ma vampirizzata, l’‘Arcadia devastata’, si configurano come tema ecologico globale che è insieme umano e umanistico, economico e tecnologico, storico e scientifico, politico e religioso, filosofico e artistico, linguistico e sperimentale, individuale e comunitario. Zanzotto è un luogo, ben più che un soggetto. Patrizia Valduga, in apertura al numero di Autografo che uscì per il novantesimo compleanno del poeta (I novanta di Zanzotto. Studi, incontri, lettere, immagini, n. 46, 2011), scriveva: «I Medicamenta sono una baracca abusiva della città Zanzotto: ogni materiale viene da lui», e ribadiva la metafora ‘urbanistica’ e il proprio debito dichiarando di essere nata, come poetessa «a Zanzotto, capitale della poesia».
Dopo che l’amico – cui sono grata – mi ha offerto lo spunto del centenario, ho iniziato a leggere, a studiare Zanzotto, nell’intento di andare oltre le tre formule citate.
Era uno spunto che certo aspettavo, e che è arrivato al momento giusto: come testimoniava il volume del Galateo in Bosco da decenni su uno scaffale, impenetrato al modo di una stele egizia, in passato avevo già provato ad affrontare Zanzotto, senza però riuscire ad andare oltre qualche assaggio lungo il perimetro dell’opera, ai suoi ‘margini’ per così dire. Come investimento e pegno del fatto che questa sarebbe stata la volta buona ho acquistato (per ragioni sia economiche sia di spazio, da anni i libri anziché comprarli li prendo in prestito alla biblioteca pubblica) il volumone con Tutte le poesie, curato da Stefano Del Bianco e ricavato dall’edizione dei ‘Meridiani’, e insieme anche Luoghi e paesaggi, una scelta di prose postuma così intitolata dal curatore, Matteo Giancotti, e dotata di una bellissima copertina (un dipinto di Giorgio Dario Paolucci).
La mia lettura, un incontro con l’opera posso dire siano ora per me sostanzialmente avvenuti: sia chiaro, nella forma molto parziale e aperta della ‘fantasia di avvicinamento’, parafrasando il titolo del primo volume degli Scritti sulla letteratura zanzottiani (in modo non meno evocativo il secondo volume si intitola Aure e disincanti nel Novecento letterario).
La parzialità di tale ‘avvicinamento’ – mio, per dire di un lettore tipo – implica la prospettiva di ulteriori, futuri approfondimenti ed è determinata tanto dalla sfaccettata vastità dell’opera zanzottiana (che si sviluppa lungo ben sette decenni tra poesia, prosa, saggistica e traduzione) quanto dall’oggettiva ‘difficoltà’ che ne caratterizza alcuni momenti e risultati. Il luogo comune ‘Zanzotto difficile, Giudici facile’, limitativo verso entrambi i poeti, ha pure una sua verità (del parallelo fra i due grandi del secondo Novecento italiano, ricorrente nella critica, ho parlato in questa rubrica per il decennale di Giudici, anch’egli mancato nel 2011). Sono spia di quest’ardua materia i titoli di libri e singoli componimenti che, dal Galateo in Bosco in poi, rimandano a specifici fenomeni percettivi, ottici, geologici: fosfeni sovrimpressioni conglomerati diplopie diffrazioni eritemi... A un livello profondo, la critica evidenzia «lo sfaldarsi delle figurazioni di paesaggio e soggetto in un indifferenziato amalgama psicofisico» (Niva Lorenzini); «il significante non è più collegato a un significato […] ma si istituisce esso stesso come depositario e produttore di senso», con la conseguente «estromissione dell’io dal campo dell’esperienza» (Stefano Agosti).
Uno degli abbordabili ‘margini’ di Zanzotto che nei miei passati tentativi avevo colto – conosciuto-riconosciuto, e amato – è il primissimo testo dei Versi giovanili, datati 1938-1942 e nell’Oscar Mondadori Tutte le poesie collocati in Appendice, mentre nell’edizione dei ‘Meridiani’ si trovano in apertura.
BALLATA
Piume verdi fu il bosco
e le tonde irrequiete lepri
e gli scoiattoli a schiere
bevvero nella fontana.
Or quell’acqua impaurita
odora e sussulta di lepri
di molli scoiattoli in fuga.
Giace la luna sul colle
e nella casa
tacciono i vermi leggeri.
In profili alti
di animali leggiadri
ride l’ombra del diluvio.
Coerentemente col titolo Ballata, ‘facilità’ musicale, tutta percorsa da un fremito di liquida, misteriosa inquietudine. E subito le immagini che saranno sempre di Zanzotto: il bosco, nel primo verso, e la luna, al centro. Poi, gli elementi naturali: animali, nubi, acque, cieli. E la presenza umana indicata attraverso segni silenziosi: la casa, che non è detto sia abitata da persone, mentre sappiamo che vi «tacciono i vermi leggeri». Un sistema di elementi, un’atmosfera allusiva, sospesa tra purissima alba delle cose e presagi di morte, che ricorda Trakl come un brivido verde.
Il tema della morte è infatti centrale, insistente nel primo Zanzotto (la sorella Angela era morta nel 1937, la sorella Marina nel 1929), benché vada precisato che qui i «vermi leggeri» dovrebbero essere bachi da seta, all’epoca allevati nelle case: presenze dunque in sé alquanto domestiche, non cimiteriali e macabre quali risultano al lettore odierno. Il tempo verbale, in ogni caso, è il rintocco di un passato già irrecuperabile e come sigillato in se stesso: «Piume verdi fu il bosco», con la sonorità cupa delle ‘u’ a echeggiare questo richiudersi e la stretta della paura e dell’inquietudine: da ‘piume’ e ‘fu’ in incipit, attraverso ‘irrequiete’ (v. 2), fino al diapason centrale («Or quell’acqua impaurita», v. 5) che si traduce in ‘fuga’ (v. 7), si distende poi nell’immagine della ‘luna’ (v. 8) per giungere all’ultima, biblica e arcana parola: ‘diluvio’.
Il ‘bosco’ è evidentemente il centro (il nome) del mondo poetico zanzottiano, ovvero del paesaggio, ed è anche il centro di questo suo primo giovanile componimento. Al suo interno le presenze degli animali – lepri e scoiattoli – sono mobilissime, e anche fonicamente ‘scoiattoli’, che viene potenziato da ‘schiere’ e ripetuto, sembra generato da ‘bosco’, con un effetto di fusione e confusione tra le due parole e le due immagini, un moltiplicarsi della presenza animale all’interno del mondo-bosco appena rischiarato da una luna bassa e messo in prospettiva da enigmatiche, irridenti ombre...
Il fascino di questa breve Ballata mi pare indubbio, così come la possibilità di leggerla cogliendovi in filigrana lo Zanzotto a venire.
Mi dico oggi che, come è magari ovvio, Zanzotto io non potevo leggerlo prima non soltanto perché nessuno me lo aveva mai davvero proposto o presentato: soprattutto perché sarebbe stato troppo per me.
Ad esempio, avessi saputo che il topinambùr è uno dei suoi emblemi (tra Meteo e Sovrimpressioni almeno quattro poesie sono dedicate al suo «Ur-giallo»: «una scintillazione che pare casalinga / ed è invece stellare» e dà accesso «ai paradisi più facilmente leggibili»), avrei mai potuto, osato scrivere, io, dei topinambùr che vedevo lungo le strade e sul greto del Piave...?
Impudentemente – poiché il testo di Rivolgersi agli ossari è troppo lungo per poterlo proporre qui, come avrei voluto – mi permetto di concludere lasciando in omaggio al poeta di Pieve di Soligo i miei topinambùr, fiori che tra settembre e ottobre, in questi giorni del suo compleanno, capita di scorgere a bordo strada, andando nel paesaggio.
Ora che l’estate se n’è andata
nei campi s’accendono
i ciuffi svettanti dei topinambùr
– oscuri cugini dei girasoli,
piccoli soli noncuranti,
astri di tuorlo zucca zafferano
alla foschia dei mattini, ai pomeriggi
ancora così lunghi e caldi
10/10/2021