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Poesia d'estate

di Giovanna Menegùs

D’estate rileggo sempre Biagio Marin.

L’ho letto per anni nell’incanto del luglio o dell’agosto accanto al mio torrente di montagna – acqua, acqua che scorre e scroscia e canta. L’ho letto davanti al mare, in diversi posti di mare: Marin come mare, nomen omen. Anche quest’anno che forse al mare non riesco ad andarci nemmeno un poco e allora ancor più lo desidero, chi non desidera il mare?, desidero riaprire il mio Marin. Che poi non è il Marin completo, è l’Elefante Garzanti con la copertina azzurra, azzurra come il mare l’acqua il cielo estivo: tutti gli Elefanti Poesia a dire il vero hanno la copertina di questo azzurro, celeste forse più propriamente, ma lo stesso per me questo è il colore di Biagio Marin – un po’ per il suo mar grando, la sua laguna, un po’ perché questo è forse il primo Elefante Poesia che ho comprato, e certo quello che mi è più caro. Ma forse Biagio Marin mi piace così tanto per la dolcezza della sua lingua, un dialetto fra Venezia e Trieste, il dialetto dell’isola di Grado, che mi risuona dentro con gli accenti di una parlata natale, materna, e però più bella e musicale del mio dialetto: che è lo stesso, ma nella versione di montagna, il cadorino aspro, richiuso fra le crode e i sassi quanto il gradese di Marin è aperto ai vasti spazi lagunari e canta, quasi sottovoce, respirando inspirando con il fluire della marea e della luce ai quattro punti cardinali, all’orizzonte. In realtà poi forse di Biagio Marin conosco, rileggo sempre solo alcuni, pochi versi, sempre gli stessi, o i suoi versi sono sempre uguali. Li faccio risuonare mentre sto di fronte all’acqua e sotto il cielo finché non so più distinguere il suono dei versi da quello della stagione, una dolcezza dall’altra, il celeste del libro socchiuso da quello del mare, di tutti i mari immaginati e desiderati nella poesia-estate. Far rimare l’acqua con la luce, nient’altro: «E púo, un bel dí, xe comparía una puta / che la passeva sola le zornàe, / quele grande d’istàe, / l’aqua col sol rimando, senpre muta» («E poi, un bel giorno, è comparsa una ragazza / che passava sola le giornate, / quelle grandi d’estate, / l’acqua col sole rimando, sempre muta»). Guardare le nuvole estive, nient’altro, per tutto il tempo incantato del sole alto che versa oro sul mondo finché il cielo e la stagione non cambieranno: «Una nuvola d’oro zoveneta / da vêghe navegâ pel sielo fondo» («Una nuvola d’oro giovinetta / da veder navigare per il cielo fondo»).

Faccio ora il gioco, la verifica di cercare fra i titoli delle raccolte di Biagio Marin – che sono tante, perché ha avuto una vita lunga (1891-1985) e ha sempre scritto – la parola estate, ed eccola: Canti de prima istàe (1951) e Dopo la longa istàe (1965), ma ci sono anche L’estadela de san Martin (1958) e un’antologia postuma intitolata Maistral d’istàe che nel 2000 venne distribuita gratuitamente sulle spiagge di Grado, in diecimila copie addirittura, a quanto  si legge nelle cronache di due decenni fa reperibili in rete.


Quando penso a Biagio Marin spesso poi mi ritrovo a pensare anche a Natalia Ginzburg, che nel suo stile brusco e inconfondibile diceva: io non so nulla, non capisco nulla, solo la poesia riconosco, e così riconosco Biagio Marin, e ho bisogno dei suoi libri (che è difficile trovare, aggiungeva). «Questa estate», raccontava in una prosa pubblicata sulla Stampa nell’ottobre 1970 e in seguito ripresa in Vita immaginaria (1974) «compresi che la poesia di Biagio Marin era per me un bene inesauribile. Allora gli scrissi una lettera». Noto il fatto che la lettura, la scoperta siano associate all’estate. Ma soltanto ora mi viene in mente che, come per me, anche per Natalia Ginzburg il dialetto gradese di Marin doveva risultare ‘famigliare’ – e forse anche per questo trovare risonanze profonde –, poiché il padre, il professor Giuseppe Levi, era di origini triestine (la parlata triestina è elemento non secondario del ritratto che in Lessico famigliare ne dà la figlia scrittrice, a partire dal famoso, tonante incipit «Non fate sbrodeghezzi, non fate potacci!»).


Ginzburg a parte, e giusto per non spezzare il filo geografico idealmente passando da Duino, che a Trieste è contigua, la presenza estiva di Biagio Marin la collego a Rilke, ai versi conclusivi dei Sonetti a Orfeo: «Zu der stillen Erde sag: ich rinne. / Zu dem raschem Wasser sprich: ich bin» («Alla terra ferma ripeti: io scorro. / All’acqua scrosciante da’ il suono: io sono», una formula di densità semantica e fonica quasi intraducibile, in cui la rasches Wasser per me scivola tra i sassi e il pietrisco: è l’acqua del mio torrente di montagna, Ru, Ru Secco, dal corso irregolare e intermittente, franante come l’immensa montagna che lo sovrasta e lo alimenta dai suoi ghiaioni e forcelle e nevai). Ché poi, certo, basterebbe pensarci per ricordarla e riconoscerla ancora più indietro, quest’acqua è Eraclito: entriamo nel fiume, il fiume che è e non è lo stesso, siamo e non siamo gli stessi... la dialettica fra eternità e singolarità, fra essere e divenire, tempo e istante, durata e impermanenza ecc. «La mutazione origina il canto; / non aver paura di sparire; / dura un attimo il giorno / ma è eterno l’incanto» (nella versione originale gradese rimano anche i due versi centrali: sparî / ). L’estate è la stagione dell’acqua: si cerca l’acqua (mare, lago, fiume, piscina, fontana, pozza, temporale), e, forse, sotto la convenzionalità e superficialità dell’azzurro vacanziero-pubblicitario c’è sempre, anche inconsapevolmente, la possibilità di attingere questa dimensione e rinnovare il contatto con l’archetipo, nella sospensione del ritmo produttivo-coatto concessa dalle ferie agostane.


Poeti del mare e dell’acqua, delle acque, ne esistono altri, Biagio Marin non è certo l’unico: per limitarsi ai grandi del Novecento italiano, si va dal Montale degli Ossi di seppia, all’altro illustre ligure Caproni, a Luzi con il suo fiume, Fiume da fiume, in tanti versi straordinari, a Sandro Penna con i suoi giovani marinai colti nella luce... A rendere peculiare – e per me tanto suggestiva – la poesia di Marin è, mi sembra, una forma di esemplare radicalità, il fatto che nel suo caso l’operazione sia ‘totale’: totale e a suo modo totalizzante, petrarchesca per delimitazione e coerenza, costanza interna tematica e linguistica. Il dialetto dell’isola riversato e rimodulato nelle rime e nei metri lirici è quella lingua a parte, la lingua selettiva e assoluta che oltre se stessa – o coincidendo totalmente con se stessa – diventa la cosa poesia. El mar grando («Fa che la morte mia, / Signor, la sia / comò ‘l score de un fiume in t’el mar grando») vive attraverso tutti i versi di Biagio Marin come orizzonte di quotidiana esistenza e di contemplazione sensuale e spirituale insieme. Come respiro e specchio, metafora perenne, che si apre a risvolti filosofici e mistico-religiosi ampiamente messi in luce da critici, studiosi e poeti (Pasolini, Zanzotto, Carlo Bo, Massimo Cacciari...), che in parallelo evidenziano il colloquio del poeta, dalla sua posizione appartata, con la cultura europea moderna, oltre che con i contemporanei triestini Umberto Saba, Virgilio Giotti, Scipio Slataper.Ne è prova anche l’edizione con la copertina azzurra: l’Elefante Garzanti è stato curato da Claudio Magris e Edda Serra. Con il poeta, maggiore di lui di quasi cinquant’anni, Magris intrattenne un intenso rapporto del tipo discepolo-maestro testimoniato da una corrispondenza pubblicata sempre da Garzanti (Ti devo tanto di ciò che sono. Lettere con Biagio Marin, 2014). Le versioni in italiano dell’Elefante si devono a Edda Serra, che conobbe Marin in qualità di giovane studiosa e in seguito è stata fondatrice e presidente del Centro Studi gradese a lui intitolato, curando numerose iniziative e pubblicazioni, fra cui gli Atti del Convegno nazionale sul poeta, tenutosi a Grado nel 1987. È mancata a fine marzo, ottantenne: tre mesi prima della celebrazione dei 130 anni dalla nascita di Marin, che cadeva il 29 giugno, a pochi giorni dal solstizio.


Nei miei tentativi di poesia inseguo anch’io sempre questa stagione, la «distesa estate» di Cardarelli, l’«incomprensibile / estate chiusa in serre di pioggia» di Zanzotto... Il titolo del mio primo libro di versi – che da sola non avrei trovato e col passare del tempo sempre più sento giusto – è Quasi estate. Fu proposto dagli allievi di MasterBook, il master di specializzazione editoriale dello IULM, che nel 2017 con ExCogita di Luciana Bianciardi ne curarono la pubblicazione.

Ma dell’estate credo di aver colto appena una lettera: il modulo d’un suono, l’ipotesi e l’intuizione di una musica. «Instance de la lettre», mi disse Luciano Erba. Insegnava nell’università che frequentai e a lui per un esile filo, una lettre appena, il titolo è legato.


     «Instance de la lettre»


     Rileggo Erba dopo cent’anni,

     in treno.

     La formula magica

     pronunciata un giorno dal Poeta

         (mentre segnava con brevi bisce di matita

         il punto dei miei versi in cui

                      per qualche istante agiva:

                          fruscii d’estate, pioggia o vento – credo)

     aleggia in carrozza, elude e tenta ancora.

     Non so di più oggi che allora.

     Erba, erba verde lombarda fuori dai finestrini

         ovunque intorno, quasi estate


Nomina omina: Erba, come Marin, sembra avere l’estate nel nome. Nella variante cromatica verde e vegetale, anziché in quella azzurro acqua. Tra i suoi libri di poesia ci sono Il prato più verde (1977) e Variar del verde (1993). La stagione estiva gli detta versi memorabili: da Gli ireos gialli del 1955 («I ragazzi partiti al mattino / di giugno quando l’aria sotto i platani / sembra dentro rinchiudere un’altra aria...», in Il prete di Ratanà, 1959), al citato Variar del verde («Vi è poi un verde selvatico di forre / a mezza costa, sotto i santuari, / che scurisce nel colmo dell’estate...»), alla copertina bianca Einaudi de L’ippopotamo (1989) con l’incipit «Questo azzurro di luglio senza te» (che sembra involontariamente memore di Azzurro di Celentano-Paolo Conte et al., uscita nel 1968). In tanti momenti della poesia di Erba, così discreta e sottile e metafisica, elegante e ironica, si avverte il trepidare di un arco estivo – estate uguale vita – teso fino alla Fine delle vacanze con la partenza delle «ultime ragazze / che ancora ieri erano ferme in bicicletta / nascoste da grandi foglie di settembre / alle sbarre del passaggio a livello». Un inedito presente in un prezioso libretto pubblicato da Interlinea per gli ottant’anni del poeta (Si passano le stagioni. Autografi e inediti, 2002) si intitola, senza data, Al mare d’agosto:


     Gli accappatoi asciugano al vento

     vuoti vanno su e giù

     sono di tanti colori

     dal rosso al bianco ed al blu:

     perché li trovo più belli

     di quando coprivano il corpo

     di un addetto a non so quali mansioni

     di una nuotatrice venuta dal Nord?


La presenza allusiva e potenziale degli oggetti ‘vuoti’ è tipica di Erba, e va a sfumare il realismo della ‘linea lombarda’ cui egli viene storicamente ascritto: sedie vuote di una sala d’aspetto si vedono in copertina all’edizione della sua opera in versi, uscita negli Oscar Mondadori (Poesie. 1951-2001, a cura di Stefano Prandi, 2002) e introvabile. Da anni aspetto, in buona compagnia credo e spero, che l’editore la ristampi. Nell’attesa, d’estate rileggo Biagio Marin, o sogno di rileggerlo – è la stessa cosa. E d’estate nel mio piccolo scrivo, scrivevo poesie. Mi ricordo ora questa, fra tutte:


     Pietra asciutta, liscia selce al sole

     sul bianco greto della terra


                 mentre lento ovunque fluisce

                 il fiume in piena della luce estiva



*

Immagine di copertina: Georges Seurat, Bagnanti ad Asnières, 1884


29/07/2021

Odiare la poesia

POESIA D’ESTATE

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