Kaspar e tutti gli altri
di Giovanna Menegùs
Nella primavera dello scorso anno sono stati pubblicati due libri di poesia in lingua italiana ispirati alla figura di Kaspar Hauser, un giovinetto spuntato come dal nulla in una piazza di Norimberga, nel maggio del 1828, e morto in circostanze non meno oscure cinque anni e mezzo più tardi. Due libri, si diceva, ma potrebbero essere di più, se sono veri i dati che circolano in rete, stando ai quali al mito del ‘fanciullo d’Europa’ sarebbero stati dedicati, nei quasi due secoli ormai trascorsi dalla sua esistenza storica subito sfumata in leggenda, non meno di 8000 volumi, oltre 20.000 articoli e numerosi film.
Dunque, nell’aprile 2023 è uscita, a vent’anni di distanza dalla prima, una seconda edizione rivista – e arricchita dalla premiata versione inglese di Anthony Molino – de Il diario di Kaspar Hauser di Paolo Febbraro (ed. Mondo Nuovo). Nel Diario di Febbraro ascoltiamo la voce di un Kaspar Hauser forse quarantenne che pronuncia brevissimi soliloqui e scambia altrettanto brevi dialoghi con il custode-precettore Franz. Straniata e straniante, assorta e assoluta, questa voce aliena cristallizza interrogativi e stupori esistenziali, conoscitivi e metafisici, dislocazioni spazio-temporali, illuminazioni alternative al senso comune e alla logica, compresa quella linguistico-grammaticale. Il Kaspar di Febbraro risulta una figura isolata animata da radicale spirito volterriano, sospesa in un colloquio rarefatto ed emblematico con se stessa e con il mondo. L’effetto perseguito è che – come intorno a certi frammenti antichi, segnatamente i frammenti dei filosofi presocratici – intorno a ciascuno dei minimi nuclei testuali del Diario (43 in tutto, inquadrati in una cornice romanzesco-saggistica) si dilati e permanga un’eco, un’aura sapienziale: una durevole dimensione proto-sapienziale, zen, si vorrebbe dire, che chiede (o consente) di essere ulteriormente indagata: «Dietro alle cose, c’è la verità. / […] / Dietro la verità, le cose».
Ma veniamo al secondo titolo. Nel maggio 2023 la casa editrice anconetana peQuod ha dato alle stampe, per la collana ‘Rive’, Il dio di Norimberga di Alessandro Baldacci. Maggio 2023, 195esimo anniversario dell’apparizione dell’enigmatico ‘fanciullo’: la notazione, che non intende essere esoterica o misticheggiante, è resa inevitabile dal senso forte, strutturante per così dire, che assumono le date all’interno del poema, e su cui torneremo. Baldacci – nato a Padova nel 1970, docente di Letteratura italiana all’Università di Varsavia e autore di studi sulla poesia italiana del secondo Novecento (Rosselli, Zanzotto, De Angelis, Caproni) e la «necessità del tragico» in epoca moderna e contemporanea – è al suo esordio in versi. Il volume è tra i finalisti del Premio Strega Poesia 2024.
Kaspar appare. Kaspar annaspa.
L’intera vicenda del Kaspar Hauser di Baldacci può essere sintetizzata in queste due figure di suono (kAsPAR APPARe; kASPAr annASPA) che corrispondono ai due momenti, i due atti cruciali dell’esistenza del ‘fanciullo divino’.
Perché gli umani nascono (e muoiono). L’apparire è invece proprio delle divinità, dei sogni e dei fantasmi, dei fenomeni celesti e degli ufo. Kaspar non nasce, non ha genitori sulla terra, «appare ovunque» nella forma infantile o adolescenziale che gli è propria, e che è tragicamente immutabile: non destinata a una maturazione e all’accesso all’età adulta. Né alla morte naturale condivisa dall’umanità: Kaspar «non è vero», nulla è vero, tutto è «farsa» e l’apparizione aliena (extraterrestre, divina) si sfaccetta e moltiplica all’infinito, immagine e proiezione di tutta l’umanità, ologramma, fotogramma cinematografico, incubo, anima in pena. Kaspar è il poeta stesso che scrive, a Padova e a Varsavia; Kaspar è Sasha; Kaspar è il bambino caduto nel pozzo di Vermicino; Kaspar è Victor, il ragazzo dell’Aveyron; Kaspar è Pollicino, è Hansel, è un ufo/gli ufo… In quanto divino (ipoteticamente, dubitosamente divino) è immortale, eterno e ubiquo.
Una considerazione di ordine generale relativa alla figura e alla vicenda storica di Kaspar Hauser è la (relativa) mancanza dell’elemento femminile: alla madre del fanciullo poco si accenna, e ad accudirlo, segregarlo – infine forse ucciderlo – sono sempre soggetti maschili (o proiezioni di soggetti maschili). Ne Il dio di Norimberga la figura materna assente sembra ritrovarsi trasformata e moltiplicata in quella collettiva delle baccanti; laddove i personaggi femminili del poema (Kore, Gretel, Melania, Alice) risultano invece sorelle o doppi di Kaspar-Hansel: come appunto Gretel è sorella di Hansel nell’orrorifica fiaba popolare tedesca trascritta dai fratelli Grimm che viene evocata e rielaborata.
Al suo primo apparire sulla scena, nei versi iniziali del poema, Kaspar «annaspa». La rima tra nome e verbo, quasi identificazione fonica tra soggetto e azione o postura, fissa emblematicamente la metafora centrale del poema: annaspare è il girare fisso dell’arcolaio intorno al proprio asse, un movimento circolare e obbligato, meccanico. Tale movimento immobile è quello cui è condannato il fanciullo: ovvero il poeta, ovvero il poema, ovvero il lettore. Ovvero l’intera umanità, la Storia umana. La vicenda di Kaspar Hauser è, afferma Baldacci nella Nota finale del volume, «uno dei più ostinati, drammatici (divini?) sforzi di contrapposizione alla violenza del mondo esterno».
Il moto rotatorio torturante è infine anche quello della morte per suicidio di Kaspar: «“Ho cercato me stesso, / non si cerca nient’altro” / scrive Kaspar, girando / il coltello nel cuore» (così si conclude la prima sequenza, Norimberga).
Ogni ricordo s’incaglia,
il cavalluccio stramazza,
mentre dopo la boscaglia
gridano Führer in piazza,
e lui vestito di rosso,
come una preda che annaspa,
comincia a prendere posto
gridando: «io sono Kaspar».
Strutturato in 5 parti composte ciascuna da circa 5 sequenze (per un totale di 22) a loro volta costituite da doppie quartine in numero variabile, Il dio di Norimberga si presenta come una rigorosissima forma chiusa e ossessiva fitta di rimandi interni e trasversali, ma che dal proprio interno rimanda sempre ad altro, si apre a infinite sovrapposizioni o – come suggerisce l’autore nella Nota finale – procede «subito […] in direzioni imprecisabili». La struttura chiusa delle doppie quartine perlopiù rimate o assonanzate, speculari l’una all’altra – circolari come nel ricorrente girotondo, evocato anche nel titolo di una delle sequenze finali, Girotondi e congedi – è ripetuta in tutto il poema. L’unica eccezione formale è rappresentata dall’inserimento di due immagini: due fotogrammi tratti dal film di Truffaut L’enfant sauvage che stanno l’uno ad aprire l’altro a chiudere la sequenza Kaspar guarda, al posto di due doppie quartine e come queste contrassegnate da numeri romani.
Man mano che si procede nella lettura, o nelle riletture, sempre più si prova la sensazione di assistere all’esecuzione di un solitario in cui è possibile accostare in innumerevoli modi diversi piccole tessere opache potentemente magnetiche, ormai logore per l’accanimento quasi folle di cui sono fatte oggetto – un solitario destinato a non riuscire.
Tra le allitterazioni più frequenti e significanti si segnalano: piazza pazzia; ufo farsa fantasmi («fra gli ufo e la febbre», p. 97; «forse la sabbia porta la febbre», p. 93); bambino baccanti baciare bocca bosco.
Insieme al gioco e all’incantesimo dei suoni da filastrocca agisce quello delle date. Victor, l’enfant sauvage che Baldacci considera il padre ideale di Kaspar, muore a Parigi nel 1828, lo stesso anno dell’apparizione di quest’ultimo a Norimberga. Il film di Truffaut è del 1970, anno di nascita di Baldacci stesso. Ma anche il ripetuto tentativo di affidarsi a un fil rouge cronologico per trovare un senso alla Storia e resistere alla sua violenza si rivela vano: nel penultimo componimento si legge «gettiamo le date, la lingua».
Topi, mosche e vermi ricorrono come costanti segni di morte: presenti fisicamente o «nella testa». Al senso di malessere fisico e claustrofobia concorre inoltre l’elemento sabbia (sabbia in gola, che impedisce di respirare). Se i vermi sono evocati anche attraverso il toponimo Vermicino, l’assimilazione di bambini e topi rimanda alla fiaba del Pifferaio magico e forse alla ripresa novecentesca in versi datane da Marina Cvetaeva con L’accalappiatopi (1925). A causa della disonestà dei genitori, i bambini vengono trasformati in topi. Il suono del flauto agisce come incantamento malefico, musichetta ossessiva, ritornello ipnotico e trascinante capace di condurre le folle (non solo di bambini) alla morte, al suicidio di massa: tutti temi contigui o presenti al poema di Baldacci. Del resto, Il dio di Norimberga si nutre ampiamente di archetipi e figure attinti dal mondo delle fiabe tedesche dei fratelli Grimm. Hansel e Gretel o Pollicino: tutti vittime del male che minaccia i bambini, immenso e multiforme.
Nel suo rigorosissimo insieme Il dio di Norimberga è una camera di tortura, una cella murata e ubiqua che si identifica sia con la psiche dell’individuo sia con la Storia europea ricapitolata per sommi capi –per sommi orrori: dai Lager al bombardamento di Norimberga, da Vermicino a Chernobyl, alla recente reclusione collettiva e pressoché planetaria prodotta dalla pandemia da Covid.
Oppure. La tragedia della lingua.
La bocca dischiusa in una o di stupore infantile di fronte al mondo è l’elemento caratterizzante del capolavoro scultoreo di Medardo Rosso, Ecce puer. Dell’Ecce puer esistono varie versioni. Nato come un ritratto, i committenti non vi ravvisarono i lineamenti del figlio e lo rifiutarono. In compenso, chiunque vi può riconoscere il volto dell’infanzia e dell’innocenza. La o muta formata dalle sue labbra è forse simile a quella il cui suono ripetuto sollecita infine il fanciullo selvaggio ancora privo di nome e sottoposto a lunghi esercizi mirati all’apprendimento del linguaggio, tanto che il pedagogo Itard ne ricava per lui il nome Victor, in francese accentato appunto sulla o.
La sequenza conclusiva del poema si intitola Oppure. La parola-titolo viene ripetuta all’inizio di ognuna delle 22 doppie quartine che la costituiscono. Oppure dovrebbe significare alternativa, introdurre una diversa possibilità: ma non è che un grimaldello spuntato e inefficace con il quale si tenta ripetutamente di evadere dalla camera di contenzione, dal pozzo, dalla torre. Victor e Kaspar ripetono le o, giocano «fra loro /a fare le o alla lavagna». Cancellano le o «dalla lavagna». Non c’è un oppure.
Anche il dramma di Peter Handke, del 1967, coglieva in primo luogo la dimensione ‘verbale’ della vicenda: Kaspar, ovvero una tortura di parole. Nel finale de Il dio di Norimberga giunge alle sue estreme conseguenze il tragico che è al centro del poema, e che è la tragedia e l’impossibilità della parola di poesia e della parola umana condivisa – l’impossibilità dell’esistenza tout court, e la parola di poesia ne è o ne sarebbe espressione. A indicarlo sta l’infittirsi dei termini relativi all’oralità: bocca lingua gola denti carie sputare, insieme alla presenza altrettanto insistita del loro polo negativo e residuale, necrotico: le feci. Il linguaggio umano, «l’alfabeto», viene mostrato da Victor «nel nero delle feci». Nella seconda parte del poema il linguaggio sembrava ancora possibile, evocato attraverso la sua esibita fattispecie fisica: «[il] bambino che danza / mentre mostra la lingua», recitano i versi conclusivi della breve sequenza Allo Spielplatz, e anche la doppia quartina precedente richiama l’attenzione sulla danza e la «lingua rossa» di Kaspar: «nello Spielplatz tutto indicava / la lingua rossa di lui che danza». Il trovatello Victor porta però una cicatrice sulla gola: segno che probabilmente si è cercato di ucciderlo, in quanto figlio non desiderato o problematico. «Il taglio / sulla gola di Victor» è potente metafora di una lingua umana comune recisa e impossibile, e perciò disperatamente cercata e affermata tra gli escrementi, che in quanto corporei mantengono un senso di realtà-verità non alienabile dal soggetto, e in specie dal soggetto ab origine non accolto dalla comunità dei suoi simili, estraneo e violentato.
Oppure si nasconde,
tiene le mani sempre
contro la gola e grida:
«io sono l’alfabeto,
il numero dei lupi
che mangiano la terra
e cercano con Victor
la lingua nelle feci».
Molte altre considerazioni sarebbero possibili, opportune. Che vinca o meno il Premio Strega, con il poema di Baldacci bisogna e bisognerà fare i conti, d’ora in poi.
Girotondi e congedi, XII.
Kaspar, Sasha e le mosche
vi salutano adesso
mentre tengono stretto
ciò che non si conosce,
promettendosi insieme
di lasciarlo nascosto
nella lingua, nel bosco
dove un dio ci trattiene.
Girotondi e congedi, XVIII.
Kaspar appare ovunque,
e è sempre a Norimberga:
ogni congedo serva
solo a tornare al dunque,
fra gli ufo, nella testa,
nel bosco in cui cantiamo
soli, per fare festa
tenendoci per mano.
*
Immagine di copertina: Hans Glaser, incisione relativa al fenomeno celeste di Norimberga, pubblicata in Wickiana, 1561 ca., Biblioteca Centrale di Zurigo / Zentralbibliothek Zürich
11/07/2024