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Giovanni Peli ha preso una decisione drastica, che al momento appare irrevocabile: l’abbandono della poesia. Di «lungo addio dell’autore alla scrittura in versi» parla la nota, apparentemente impersonale, che chiude questa autoantologia, ma è innegabile che l’insufficienza dell’arte poetica è più volte denunciata nei suoi testi; se ne dichiara addirittura, alla fine, la falsità («nella pura falsità, nella poesia, / ci siamo chiesti che cosa, oggi, valesse la pena raccontarsi») e il decesso: «È morta la poesia / specialmente la mia». Nella bella prefazione, Gian Ruggero Manzoni non sembra però credere davvero alla definitività dell’abbondono; ci ricorda – con Apollinaire – che «ogni poesia è la commemorazione (una volta svelatone il senso) di un evento della vita» e che la scrittura di Giovanni Peli è un atto di coraggio: «Quando Giovanni Peli ‘si scrive’ non teme più». Le poesie sono un centinaio, in verso libero, in prevalenza brevi, con un gruppo centrale di testi epigrammatici. Scorrono senza alcuna suddivisione e senza riportare segni cronologici, solo vagamente contigue nei temi e nei toni (la nota finale ci informa però che nell’ultima parte si addensano i versi più recenti, come quelli sopra citati). Siamo di fronte a una poesia inizialmente abitata da ricordi d’infanzia e gioventù ma che diventa pian piano ammonitrice, non riconosce più il presente «Tutto è cambiato / cresce senza permesso / senza logica» – e si accorge di «quanto può essere crudele il bene». Il poeta cerca in tutti i modi di far rivivere i propri amori, la gioia di essere padre, la voglia di raccontarsi la vita tra amici, ma resta deluso dalla inadeguatezza della parola poetica e dal mutare incomprensibile del mondo. I testi diventano quasi frammenti di racconti distopici e «il tempo passa come uno straniero». L’aspirazione più grande però resta quella di «non raggiungere che un dio: voler bene» ed è confessata così, candidamente, in chiusura di un testo a metà raccolta. Una voce disperatamente etica, autentica, autocritica fino all’estremo, che per trent’anni ha cercato la traduzione impossibile della vita in poesia.


Antonio Fiori



***


Il deserto è fiorito

dalla terra spuntano occhi felici

che ti spiano mentre ti spogli

ma tu non conti più

sei un insetto

gli insetti si imbellettano

e cantano insieme

dalla terra spuntano cose vive

onore ai vivi

morte alle divinazioni

la passione si alimenta col niente

la vita arriva

tutto il resto mente.



***


Sono rigonfio di male

che secca le labbra e il cielo

perché so che non ce la farai non ce la faremo

a tornare io bambino e tu papà

ti scusi con le tue deboli braccia ormai ossa

i tuoi occhi neri più del nero

ormai fatti anch’essi ossicine

nero impallidito di uomo nero sparito dalla tua testa

non ce la faremo a stare all’aperto in canottiera

a ridere e tagliare l’anguria come banzai

perché le ossicine basta soffiarci sopra e si spengono

e mentre l’erba cresce e inorgoglisce il gelsomino

tu non sei più tu e io vorrei essere quel tuo io.



***


La bella la grande illusione

distruzione che non fa macerie

le parole una sopra l’altra

l’incubo leggero di sempre

far crollare e poi tirare su

toccarti scioglierti averti

galleggiare suono tra i suoni

non rispettare il tempo né scegliere

nascere e invecchiare in una volta

l’orizzonte è una supposizione

viola è il mare e anche verde

l’inutile limite dei mai più

il mostruoso non-ancora-là

vedere due volte il primo tramonto

un soccombere che ancora non nuoce

e insieme il tagliare delle carezze

le affilate dita di rosa dell’aurora.

Giovanni Peli è nato a Brescia nel 1978. La sua produzione spazia dalla poesia alla narrativa, dal cantautorato alla librettistica, alla letteratura per l’infanzia. Ha fondato Lamantica Edizioni con la traduttrice Federica Cremaschi. I versi qui pubblicati sono tratti da Poesie 1994-2024 (Calibano, 2024).



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Immagine di copertina: Salvador Dalì, Equilibrio infra-atomico con piuma di cigno, 1947


19/05/2024

Nuovi versi

DA “POESIE 1994-2024”
DI GIOVANNI PELI

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