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Si può raccontare in versi, in un monologo dai giorni della malattia, l’esperienza del Covid? È possibile farlo, e soprattutto vogliamo, siamo pronti, disposti ad ascoltare – ancora, già, un’altra volta – questo racconto, da una voce smarrita e sentimentale, media e grigia, spaventata e rabbiosa: forse troppo simile alla nostra stessa voce e certo troppo vicina ai fatti, all’ipertrofica onnipresente logora cronaca della pandemia che non finisce...? Difficile rispondere. Comunque sia, con La zona rossa Raffaele Castelli Cornacchia mette sul piatto il suo racconto, il suo personale vissuto. In apertura sintetizza così la vicenda all’origine del libro: «Ho trascorso gli ultimi giorni di febbraio accompagnando mia madre per ospedali fino alla fine dei suoi giorni. Credo che sia stato lì che il virus mi si è insediato». «Marzo è stato il mese della malattia», «del recupero di queste parole che poi, nella convalescenza d’aprile, sono diventate questa raccolta di poesie. Giorni nei quali ho fatto con i versi quello che ho fatto con il mio corpo: ascoltando poco quello che si diceva, e molto quello che sentivo».

Oltre che di libri in versi Castelli è già autore di monologhi teatrali, e viene da pensare che la dimensione congeniale e necessaria a questa sua Zona rossa, più della pagina stampata e della lettura individuale, sarebbe proprio la scena, dove la condivisione civile e pubblica, collettiva, ricercata dalla voce lirico-narrativa potrebbe meglio esplicarsi. «Democratico questo nostro palco / recitato nel silenzio del verbo /dietro le sbarre le parole tigri /si fanno vedere, come a dire», afferma questa stessa voce in Le parole tigri, uno dei 37 testi del monologo.


Giovanna Menegùs



IL VIZIO DELLA CADUTA PLANARE


     Quarantacinquesimo farsi sera

all’uggia d’un tratto immaginato

dalla presenza di una persona

sul Parallelo dell’isolamento

geografico, fisico. Umano

fatto di quanta chimica contiene

quanto possono le scarne speranze

morderne e addentarne le spoglie.


     Basta non toccare. Non respirare.

     Non azzardarsi al sentir dolore.


     A guardar bene scorgi vitalità

nei giovani ignari del domani

che dicono lingue senza frontiere

seduti a distanza di certezza:

il quarto stato della materia

la parte liquida del nostro sangue

o del suo fluire nel monitor

dell’impalpabile volubilità.


     Quindi non toccarmi. Non respirarmi.

     Sono l’avvento del tuo sapere.


     Sono il tuo intelletto scemo

la sepsi della connessione certa

il guasto nella tunica griffata

la contaminazione del prodotto

la corruzione nella rotazione

l’infezione ronzante d’un insetto.


     Il vizio della caduta planare.



UN VESTITO SVOLAZZA BREVE I TACCHI


     A nuotare vino o sangue

un dirupo la nostra giovinezza

che a strapiombo si tuffa nel mare

romantico al tramonto, da soli

controlliamo nello specchio le vene

nella trasparenza del corpo, rughe

che trattengono qualcosa di ieri

come quel sorriso o quel capriccio.

     Ancora da premiare, o punire.

     Per l’essercelo goduto il tempo

a letto con noi o senza noi

in quel vestito di seta leggera

e i tacchi inutilmente alti.

     Poi, con i pensieri fatti stranieri

tastiamo nel buio tutte le strade

che ormai s’aprono brevi. Lo fanno

ancora, sangue della giovinezza.



COME I PETALI PER CERTE API

    Cosa ritorneremo a diventare
a celebrare
dopo che le parti del nostro corpo
si saranno ricomposte
nel flusso nostalgico delle presenze
e delle mancanze.

    Uno spiffero nella finestra rotta
il canto soffocato dalle mascherine
o lo scorrere degli eroi
sulla pellicola patinata
e i prezzi rialzati: bastardi.
 
    Ritorneremo a fuggire
da una stazione all’altra
code, caselli, teli e lozioni
e a chiamarla vacanza
e lasceremo solchi tatuati
del nostro futile passaggio
cercando di far combaciare
le geometrie delle nostre anime.

    Ogni cosa al suo posto.

    Perlopiù impronte
di rettangoli ripetibili
perfetti quarti di circonferenze
come quarti di pollo
il libro, la valigia
lo smartphone, il portafogli.


     La nostra casa della quarantena
per qualche giorno vuota.
     La quotidianità sarà da altre parti.
     Faremo dighe con i sassi
e intaglieremo cortecce
aspettando il primo temporale
per di nuovo rinchiuderci
con un ghigno stampato in faccia.


     Il mattino saranno le nubi
frammenti di forme e fantasie
e tutto ci parrà poco adatto
di una misura forzata ma pulita.
    Senza pericoli se non il fato.
    Ancora una volta.

    Ancora una volta, come sempre
a dedicarsi a falsi problemi
fatti a misura di tutti, one size
Storia per ognuno, digeribile
endecasillabo necessario
come i petali per certe api.

Raffaele Castelli Cornacchia (1964) vive a Brescia, dove fa l’insegnante. È autore di monologhi teatrali, libri per piccoli lettori, un romanzo breve. Tra gli altri titoli prima de La zona rossa (Transeuropa, 2020), in poesia ha pubblicato Via Milano (nella collana curata da Valentino Ronchi, Lampi di stampa, 2012) e L’alfabeto della crisi (Italic Pequod, 2013).



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Fotografia © Erwin Olaf


28/05/2021

Nuovi versi

POESIE DA “LA ZONA ROSSA”
DI RAFFAELE CASTELLI CORNACCHIA

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