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L’elica sembra si stacchi
pende una falce sulla schiena dei vagoni
come buoi stesi a riposare.
Dall’alto l’aria è immobile,
un muro di fatica sulle spalle degli operai,
se troppo duole il morso e i piedi hanno
sandali di ferragli inutile.
Sfatti si lasciano prendere dal sonno
è una nenia la pala che rotea lontana,
non fa rumore, e il vento è un odore
che sfama i cani.
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Il lungo sottopasso inghiotte alghe e ossa,
è un ventre vuoto dove la notte si accendono braci
tiepidi nidi di lucciole stretti ai bordi cementati.
Avvinti restano i figli alle nocche lisce,
nodi di funi alle barche, l’odore del sale assente
in quartieri così lontani dove l’eco livido
copre la miseria degli arti.
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La pelle è il ritratto delle stagioni,
l’estate ci dimentica, soffoca le telline
sotto piedi avidi a ripa di mare.
Fa male essere bambini,
usare maschere vedere l’abisso
e poi emergere come esseri umani.
Il tempo porta l’eco delle risa a riva,
comanda alle mani invecchiate dall’acqua
di sciogliere col sale le nostre squame.
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Estranea langue la palude,
il ventre di una madre sfatta
un bolo nativo sotto i cannizzi.
Della città amiamo gli argini, amiamo i fossi,
acque che non vanno da nessuna parte e da nessuna
parte ci strappano.
Mara Venuto (1978) è nata a Taranto, ma vive a Ostuni. Tra le sue pubblicazioni: i monologhi teatrali Leggimi nei pensieri (Cicorivolta, 2008) e The Monster (Edit@, 2015 – finalista al Mario Fratti Award di New York); le raccolte poetiche Gli impermeabili (Edit@, 2016), Questa polvere la sparge il vento (Edit@, 2019) e La lingua della città (Delta 3, 2021). Ha curato numerosi volumi, tra cui un ciclo di pubblicazioni al femminile. Sue poesie sono state tradotte in polacco, inglese, russo e albanese. È inclusa in una trilogia di monografie dedicate alla poesia italiana femminile contemporanea (Macabor, 2017).
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Fotografia © Martin Parr
24/12/2021