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di Giacomo Leronni
Nel silenzio postprandiale di una domenica foderata di scirocco mi dispongo a confrontarmi con il côté poétique di uno scrittore come Raymond Carver. Lo faccio avendo accanto a me, talismano mai domato né domabile, i due volumi in cofanetto di Tutte le poesie (minimum fax 2021), a cura di William L. Stull. L’opera è introdotta da Tess Gallagher (che, di Carver, è stata prima collaboratrice e poi moglie) e contiene anche una preziosa intervista inedita al poeta. Dunque: mi assumo il rischio di presentare qui, sia pure brevemente, l’opera di un poeta che non ha bisogno di alcuna presentazione. Del resto, cosa si potrebbe dire di questo come di altri (grandi) poeti? Che ha girovagato in lungo e in largo, praticamente senza fissa dimora, alla verosimile ricerca di una pace intesa come piena adesione a se stesso, a quel se stesso con cui si finisce per non aderire mai? Che ha visto giungere a compimento tare di origine familiare (in questo caso l’alcolismo) mentre disperatamente cercava di piantare arbusti nel deserto, unico suo mentore la scrittura? Che ha fallito nel suo percorso umano come tantissimi di noi (come tutti noi, se ci pensiamo bene), racchiudendo il suo fallimento in una parabola che, osservata alla giusta distanza, appare invece perfetta?
Intanto, anche in questo caso, il confronto con l’opera poetica integralmente riversata in un libro rivela che il Carver poeta non ha nulla da invidiare allo scrittore da tanti amato e celebrato. La Gallagher, che gli è stata vicino e lo ha assistito fino all’ultimo, conferma l’impressione del lettore comune e sottolinea che la poesia, per Carver, non era «... qualcosa cui si dedicava negli intervalli tra un racconto e l’altro. Era piuttosto la corrente spirituale da cui muoveva per scrivere i racconti...». Quei racconti che molti hanno letto e amato, conferendogli fama imperitura. La poesia, dunque, era per il nostro consustanziale a quella vena narrativa di grande potenza che, come sappiamo, è riuscito a dissodare con uno sforzo improbo, curando maniacalmente i dettagli e sottoponendosi al duro, quotidiano confronto con Gordon Jay Lish, suo editor e sparring partner. Nei campi della poesia, nelle sterminate pianure della poesia, Carver non ha avuto bisogno, verosimilmente, di tanto logorante esercizio, pur essendo abituato a confrontarsi sempre e comunque, con la Gallagher e non solo. La questione è che il poeta, rispetto al narratore, anche quando mira a un rigore che qui di certo non manca, ha le mani più libere. E le mani, qui, raccolgono sempre e solo vita, in ogni angolo, in ogni sperduto microcosmo in cui è andata a collassare.
Dicevo che non c’è bisogno di presentare il Carver poeta. Da lettori apriamo i due volumi (anche a caso, durante le tempeste che quotidianamente folleggiano dalle nostre parti) e ci troviamo al suo fianco nella battaglia, accanto a lui, addirittura nei suoi vestiti, mentre il mondo si sbriciola sotto i piedi di chiunque. Allora, anche grazie a lui, ci afferriamo disperatamente a qualcosa: alla «sagoma scura degli alberi», ad esempio; o al «parafango di una berlina». E percepiamo, distintamente, una incoercibile, estrema fiducia nella poesia. In quella poesia che, mirabilmente, riesce a intravedere un giardino nel colmo della nostra sperduta insipienza.
«Credile, se puoi, perché è possibile che dica sul serio. / Che sia sincera e buona con te. / Fino alla fine dei tuoi giorni.» (pag. 316). Sono versi che riconducono ciascuno di noi alla persona amata, alla persona che riesce a intravedere un giardino nel colmo della nostra sperduta insipienza. Ma come non vedere negli stessi versi un’ulteriore, incoercibile, estrema fiducia nella poesia?
***
Eri l’angelo che mi spegneva
la sigaretta sulle labbra. L’angelo
i cui piedi nudi ferivano gli alberi.
Adesso la poesia s’incammina,
proprio quando i ricordi
non bastano più: tu che benedici il ponte
tu arresa alle ciliegie, col tuo mantello
sperduto di frasi. Quella volta
con lo zio Timothy e quell’altra in bicicletta
(allora avevi un sigaro all’orecchio).
Padrona di quei bambini e loro schiava.
Finnegan, il mio caro e vecchio Finnegan,
l’irlandese: il suo sorriso marcio
quando ti guardava. Il letto...
Beh, quello lasciamolo perdere.
Facciamo ancora in tempo a vendere
la casa, se vuoi. Poi quella volta
quando pensavamo di esserci persi
in quel magazzino che puzzava di pesce.
Eri nuda, certo. Ma, in fondo, non c’era
nulla di male. Ragazzina
come sei diventata dopo, un po’ sera
un po’ rugiada per i prati.
Ti ho nascosta nella falda del cappello
ho occultato per bene tutte le prove.
Ogni tanto una bestemmia e tu ti schermivi.
Quando penserò di averti davvero persa
queste frasi insulse zittiranno me.
***
Fu quella volta che vidi nei tuoi occhi la baia.
George iniziò a parlare fitto, un cavallo
sottratto al suo morso. La luce calante
era equanime (beh, solo la luce sa esserlo).
Avevi addosso quel vestito blu a fiori
e un po’ di salsa agli angoli della bocca.
Quella baia era stata predisposta per noi
ma George non lo sapeva e allora giù
sproloqui e calcoli e imprecazioni: la vita
si era incagliata, come le accade spesso
e lui non se ne faceva una ragione. Sai
cos’è essere felici e sai che non si può
porgere a qualcuno la felicità. Ti distendi
con me qui, adesso, sistemi il tuo fuoco
(c’è della perizia in questo). Volevamo
essere normali, ma anche agguerriti, ecco.
Al tempo giusto. Si parlava ancora
in attesa del caffè. E gli occhi, quei tuoi occhi.
Puoi partire di lì e girare per tutta la galassia
superare George, il male e quella sera
con le sue onde acute. Puoi anche sentire
le vene marcire e questi fogli accalcarsi
intorno alla brace, poi in qualche modo
si torna a casa, si torna sempre a casa
ai tuoi occhi che soffiano sull’eternità.
*
Fotografia © Francesca Woodman
26/05/2021