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di Giacomo Leronni
Sovrana cosa è, di tanto in tanto, rievocare le vicende poetiche di figure intrepide e solo apparentemente marginali, che hanno dispiegato il loro talento a tratti controcorrente o contromano, in tal guisa condotti dalla poesia stessa che, si sa, non ha bisogno di ricevere indicazioni di percorso da nessuno. Nel compiere questo pellegrinaggio in territori altri, che spesso si confermano essere anche territori alti (impervi, in qualche modo; ma anche visitati dalla manna della poesia, sempre più rara da trovare altrove), può succedere d’imbattersi in storie esemplari nella loro drammaticità e nel loro rigore, che appaiono ben salde in mezzo alla tempesta che ci tormenta, come se qualcuno fosse realmente giunto a sfiorare brandelli di verità che non temono nulla e addirittura impensabili se confrontati con il vuoto che ci circonda.
È quello che accade a chi, ad esempio, giunge a confrontarsi con l’umana sorte e la sempre maggiore reviviscenza letteraria di Ferruccio Benzoni, certamente sostenuta, quest’ultima, dalla meritoria pubblicazione dell’opera completa per i tipi di Marcos y Marcos (Con la mia sete intatta. Tutte le poesie, 2020), a cura di Dario Bertini e con introduzione di Massimo Raffaeli.
Il canzoniere di Benzoni, così ricondotto in assetto e consegnato ai più avvertiti lettori di poesia, inscena un percorso perfetto, sobrio, asciutto, essenziale, nonostante sia il distillato di una vita tutt’altro che lineare o, in qualche modo, compiuta. Ci si trova dunque di fronte, ancora una volta, al miracolo che la scrittura compie a sua stessa insaputa, quando è in grado, come in questo caso, di purificare e filtrare tutto ciò che un uomo è stato, disincrostando le traiettorie esistenziali, dissodando a dovere il campo del destino fino a renderlo del tutto efficace. E il miracolo è ancora più grande se si constata, andando a fondo nella lettura dei testi, che niente è stato smarrito dei passaggi fondamentali di quella esistenza, niente della sua ostinata, perenne osservazione al confine del nulla, quando la mente conta e riconta i possedimenti perduti, si avvita nelle relazioni che si sono trasformate in tracce – più o meno profonde – e si scopre cesellata in una continua, onnipresente condizione di orfanità. Manca sempre qualcosa, a chi scrive. Manca sempre qualcuno: una persona indimenticabile, che c’è e non c’è, che ci sembra di aver conosciuto, anche se non sempre ricordiamo esattamente dove. Questo, a ben vedere, costituisce la vera poesia. E la vera poesia interseca i versi di Benzoni, soprattutto in alcuni testi di questo libro fondamentale, come se non attendesse nessun altro.
Saremo sempre grati ai poeti che sanno guardare in faccia l’inverno, ai poeti che portano tatuata sulla loro stessa pelle quella frontiera che sembrano cercare fuori di sé, nell’incrocio spesso maldestro con gli altri, ai poeti acquattati nell’ombra delle nostre case, fra gli oggetti che ci sono cari, presenze insospettabili che sanno tutto di noi. Ed è soprattutto questo sentimento di gratitudine che mi ha aiutato ad incrociare Ferruccio Benzoni nei versi che seguono.
***
La luce nel mattino corrosa
in vetro, appollaiata testuggine
o anche i suoi incauti tratti
di alba ripiegata, bisso, fiore.
Per questo tutti sgomenti e
qualcuno anche aggrappato
al cielo tungsteno, al cielo rondine:
rinati perpetui, colonne
col bulino in mano
e pietas lì nel profondo.
Mi ero sporto anch’io. Col bicchiere
il corvo vivo, l’innervato
patire, il volto attinto
da un antico martirio.
Poi una scossa, un sussulto insperato
come quando rincasi e io
non sono mai pronto
per la beatitudine acre
di finalmente dormire.
***
Lasciami qui, sconfessami
un incendio assiderato
necessità superstite per queste luci
effigie che vaga tra i mutamenti
in compartecipe superficie
– o qui si va in un lago di voci
folli o ci si miete.
Eppure era tutto ingombro
tutto evanescente, un giglio di Francia
o la tua bocca. O il tuo angelo.
Approfittane, ti prego. L’involucro
invoca la sua calce, la sete
si ripara nel sangue di tutto ciò
che mettiamo in fila, dopo aver
tutto immancabilmente perso
– i piani scoscesi dell’essere
di foglie ammansiti, di doglie.
*
Immagine di copertina: Evelyn de Morgan, Angelo con serpente, 1870-1875
11/03/2021