Inediti
ILARIA PALOMBA
«Cara Ilaria, le tue poesie sono perfette metricamente e dense nei contenuti. Il quotidiano allucinato, livido eppure caldo, vissuto nell’istante, s’intreccia a una memoria tersa: l’infanzia in Puglia, le strade e i paesaggi del Sud, di una provincia dimenticata. Affiora il linguaggio di chi troppo si è avvicinato al reale lacaniano, all’incandescenza. Un movimento di rive e derive, la parola in disparte, l’osservazione lucida. L’altro è presente come risultato di una metamorfosi accecante, rapida e ben ponderata. Il significato pesa, ‘il ciuffo del significato’ come dice Celan. Una sintassi lineare va accanto a una esatta musicalità, frutto di una ritmica del soffio. Il sacro della realtà e il fuoco del reale: questo nella poesia che leggo, già matura, con un taglio e un’espressività riconoscibili. Ti propongo per Avamposto, grato di avermi stupito.»
Alfonso Guida
***
Le lingue dicono ciò che l’altra non vuole,
fatemi partecipe del vuoto, non so
correre sulle lische dimenticate, ancora pregne
di ruggine e mani, le vostre. Mi avete
accarezzato? L’umido mellifluo della menzogna
sulla pelle, nei muscoli, fino alle ossa.
Seguo con l’iride nera la donna che accartoccia
nei giornali residui di cibo, le stesse ossa.
Vivificare le preghiere, per tornare a casa:
un borgo che non ha più campo
snebbia nella bolgia del tempo,
lei raggomitolata raccoglie il fiato
per ricordare che si è stati qualcosa.
***
Fotografano volti e monumenti,
odore di chiuso in pieno centro.
Le strade nidificano sguardi.
Tutte le case sono assenti,
le case rosse di Campo de’ Fiori
deragliano oblique, risucchiano.
La trama stigia del tuo corpo
riassorbito nell’albore. Aspettami.
Non è fragile chi ha sfidato l’ombra,
ma chi rifiuta di guardarla.
Le notti vuote di Roma, un mito distante.
Ai piedi delle basiliche, delle cattedrali,
sento di appartenere alla città:
stele per un requiem di vento.
***
Possessione e frantume, desidero una luce
non artificiale. Apertura. Le chiavi sono nel
morso, suturate. Ho cucito sulla pelle gli anni
dimenticati, uno per uno, gli anni consumati
ad aspettare un senso qualunque. Adesso
non ho nulla da attendere, se non la parola
esatta per dire la tonalità di questa luce che
non ho raccolto e che continua, numinosa e cieca,
a iridare il tuo volto, a scinderlo. Non lasciarmi.
***
Cosa sei in me?
Parabola che non so decifrare,
melopea spettrale. Nel buio
della stanza ho lasciato i libri
accatastati, segni sradicati dal
suolo: origine, presenza di
cui manco. Minervino innevata
cresceva nell’assenza,
mi riconoscevo antica, nel
pozzo di Canosa ritrovavo
l’acqua densa di memoria,
la donna della quinta prigione
cammina esangue fino alla fonte,
scompare, pietrificata dall’acqua.
Li chiamano fantasmi ma
sono ancora vivi. Le case
vuote, scarne. Afrore di carne.
L’assente. Ripieghiamo cento lenzuola,
mia madre appare la notte
nelle crepe del muro. Anche lei è stata
un tempo limpida, mansueta e dopo
ha preso fuoco, la gonna a fiori: un rogo.
E nel suo corpo il mio annega
allagato al ventre:
la grande assassina.
Ilaria Palomba, 1987, pugliese, ha pubblicato tre sillogi poetiche: Mancanza (Augh!), Deserto (Fusibilia – Premio Profumi di poesia 2018), Città metafisiche (Ensemble); cinque romanzi, tra cui: Homo homini virus (Meridiano Zero – Premio Carver 2015), Disturbi di luminosità (Gaffi) e Brama (Perrone); e un saggio: Io sono un’opera d’arte. Viaggio nel mondo della performance art (Dal Sud). Attualmente vive a Roma dove sta completando il corso di studi in Scienze filosofiche. Gestisce con Giordano Tedoldi il blog letterario «Suite italiana».
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Fotografia © Alex Webb
08/01/2021