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Inediti

DOMENICO SANTORO

***


Maritavano e tacite

al lavoro della cucina

lavando i piatti e il mondo

per non urlare al Dio crudele.


Poi, accadeva di maggio,

più sottili gioie le svegliavano

dalle loro doglie.

Ecco: il paradiso.


Il mondo gira solo una volta.

Alloro nei bicchieri,

come si chiede a Venere.



GLAUCONE


Abbiamo camminato molti passi

lasciando tracce nella polvere

e sollevandola a nugoli.

Ricordo quando m’insegnasti

a usare solo le parole che sono già nel mio vocabolario attivo

e a come riconoscerle e adoperarle;

di questo ti sono molto grato.


Seduto al bar, un po’ curvo, mi dici che ormai hai finito

quello che tanti altri stanno ancora cominciando.

Forfora, sulle tue spalle, l’alito pesante.

Sbircio il libro che stai leggendo.

Persone, così tante, lungo la vetrina.

Ognuna va verso un destino che non è il nostro.

Lasci a lungo il tè in infusione e lecchi un dito per voltare la pagina.

La tua mente più ricca di un foglio.


Più tardi avremmo preso un albergo senza pretese

a pochi passi dal convegno

avresti dedicato minuti del tuo tempo (preziosissimo, oh Dio, oh così prezioso) ai miei appunti da secondo anno di filosofia.

Indulgente e severo al tempo stesso, avresti segnalato i miei tanti errori.

Ero così lontano da te, ma volevo somigliarti,

nelle rughe, nell’espressione. L’erudizione cresciuta in te come l’albero dalla conoscenza,

amore che non ama e non perdona.


Mi lasciasti libero di girare per la città. Incontrai Sara Stefanazzi. Dopo due chiacchiere e un caffè e capii che le piacevo e m’invitava a casa.

Nella sua mansarda, dove tornava dopo il lavoro di educatrice.

Diceva che le piacevo perché parlavo bene e avevo letto tanti libri.

Tu mi avevi insegnato che la cosa più importante, della vita, è saper scegliere le compagnie, e io le dissi di no.

Poi andò verso il suo destino.


Al convegno, quando fu il tuo turno di presentarmi, mi chiamasti «ragazzo generoso». Sapevo che non avrei avuto altro da te, e che non era molto.


Poi tornammo in albergo e io preparavo la valigia, mentre tu fumavi una delle tue lunghe sigarette, mormorando qualcosa di estremamente cattivo e appropriato su Beethoven.

Quando arrivò l’inserviente gli desti pochi centesimi di mancia, e quando poi lui si allontanò lo raggiunsi per dargli una banconota.


Ancora adesso, quando leggo la Repubblica, capisco che sarò per sempre Glaucone, sempre fermo e sempre in ascolto.



***


Si svegliavano insieme:

uccelli di nido,

roridi e rossi.


Loro signore era il sole

placido uovo all’occhio di bue.


Cosa c’era, lungo le correnti?

Dove termina il volo?


Di paese in paese,

ignari dei simboli del cuore umano.

Verso est nascevano i ricordi.


Di picchi innevati. Di uccelli di metallo.

Dei grandi canyon

dove muore il cuore.


Soffrivano il gelo antartico.


Poi, trasparente come un miracolo

il calore apriva di nuovo le ali.

La luce ultravioletta dell’aurora,

visibile ai pazzi e ai bambini

e a loro.


Nel sole respiravano.




Domenico Santoro è nato nel 1986 a Ostuni (Br), dove risiede. Laureato in Scienze politiche e Filosofia, docente di sostegno, scrive narrativa e poesia. Ha pubblicato poesie e racconti su «la Repubblica» (ed. Bari), «A4», «Grado Zero», «Risme», «Il paradiso degli orchi», «Spore», «L’ircocervo», «Quaerere», «Bomarscé», «Voce del Verbo», «Dimensione Cosmica». Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Il posto delle cose (PlaceBook Publishing).



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Fotografia © Sergey Ponomarev


01/10/2021

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