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di Angelo Di Carlo

Più volte, all’interno della nostra rubrica, si è accennato alla natura ‘ibrida’ della poesia: non è mai un fatto esclusivamente razionale o evocativo, individuale o collettivo, non è mai solo segno o solo suono; e forse proprio questa costitutiva doppiezza la espone da sempre a influssi e suggestioni di diversa provenienza. 

Se poi si vuole restringere lo sguardo a un gruppo di scrittori operanti grosso modo fra gli anni Sessanta e Ottanta e riuniti sotto l’insegna della Neoavanguardia, la consapevolezza dell’intrinseca versatilità della poesia si è legata a una diffusa e generale esigenza di rinnovamento delle misure e dei generi letterari tradizionalmente intesi.


In proposito ci vengono in soccorso le parole di uno degli esponenti più rappresentativi di quella stagione, il ‘novissimo’ Elio Pagliarani, che in un breve scritto dal titolo La sintassi e i generi (1959) si mostra estremamente sensibile e acuto al riguardo, e prendendo le mosse dalla sua concreta esperienza di scrittura, giunge a far luce sui modi in cui si stava esprimendo quell’urgenza.


Nella fattispecie il discorso di Pagliarani muove dal presupposto che la specificità dei generi letterari sia data dal concorso di una serie elementi («ritmo durata tensione») in sé discreti che, tuttavia, nell’atto effettivo della scrittura-lettura ritroviamo fusi nel sistema sintattico e che contribuiscono in maniera determinante a conferire all’opera quella particolare ‘tonalità’ in cui, a detta dell’autore de La ragazza Carla, è possibile riconoscere l’identità di un dato genere letterario. Scrive infatti Pagliarani: «La reinvenzione dei generi letterari è quindi la necessaria conseguenza della più ampia e variata modulazione sintattica del discorso conseguente all’arricchimento del lessico».


È inevitabile, insomma, che il ripudio del sistema lirico tradizionalmente inteso (essenziale nelle intenzioni programmatiche della Neoavanguardia) si traduca, per dirla con Giulio Ferroni, in un «turbamento dei rapporti tra i generi» e nella predilezione per forme inedite e ibride dove possa rifluire una molteplicità di materiali eterogenei. Secondo Pagliarani «il genre poemetto, il kind poesia didascalica e narrativa sono proprio gli strumenti coi quali in questi anni si esprimono, con premeditazione, alcuni di quei poeti che […] adoperano un materiale lessicale plurilinguistico».


Possiamo affermare che lo scritto in questione (La sintassi e i generi) presenti un carattere programmatico e che, proprio per tale ragione, può consentirci di comprendere meglio il significato più autentico di certe operazioni condotte dallo stesso Pagliarani: i suoi sono organismi complessi, difficili da ricondurre a modelli esistenti pur presentando sempre una riconoscibile scansione in versi, per quanto insolita e abnorme. È lo stesso autore che, parlando di Lezioni di fisica e Fecaloro (1968), propone le seguenti definizioni: «Ho qui riunito Lettere in versi e/o Recitativi drammatici che costituiscono la parte più immediata del mio attuale lavoro, sia per quanto riguarda la partecipazione civile alle vicende della nostra società, sia per quanto riguarda la sperimentazione di linguaggi scientifici, come quelli dell’economia e della fisica, sia relativamente al dibattito in corso sulle poetiche».


Come notato da molti, si tratta di opere che s’impongono per lo spiccato carattere polifonico e rivelano quasi sempre un’intima tendenza verso l’oralizzazione. Non di rado, così, imbattendosi nella lettura di testi come quelli che compongono La ballata di Rudy (1995) si può avere l’impressione di trovarsi di fronte a una sorta di epica degradata, gretta e quotidiana, dove rimane comunque possibile scorgere minimi sprazzi di verità nello sforzo vano e coraggioso di non lasciarsi inghiottire, di resistere a quel gorgo di voci contrastanti in cui pare riflettersi l’intima e spregevole essenza della società consumistica e massificata:


     A tratta si tirano le reti a riva è il lavoro dei braccianti del mare
     la squadra sono rimasti i vecchi vecchi che hanno sempre fatto
     quel lavoro perché una volta non ce n’era molto di lavoro
     da scegliere e vecchi che gli è rimasto soltanto quello di lavoro che dormono in piedi
     che mangiano in piedi tirando la corda
     Baiuchela se piove che abbia vicino la sposa
     a tenergli l’ombrello intanto che è scalzo nell’acqua di mare
     si tendono
     i nervetti delle gambe si indietreggia ancheggiando in ritmo corale ci si sposta di fianco
     la corda tesa come un elastico il fianco legato al crocco il tempo di ballo la schiena
     tira da sola legati col crocco alla corda si mangia si dorme al lavoro si balla
     una danza notturna di schiavi legati alla corda propiziatoria del frutto […]



*

Immagine di copertina: Jacopo Zucchi, La Pesca del Corallo o Il Regno di Anfitrite, 1540-1541


10/10/2023

Il tempo e la phoné

ELIO PAGLIARANI
E LA CONFUSIONE DEI GENERI

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