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di Angelo Di Carlo
Whitman, García Lorca, Delmore Schwartz... «Poteva parlare in modo articolato di ogni poeta» afferma la cantautrice e scrittrice americana Patti Smith, ricordando l’amico e collega, allora appena scomparso, Lou Reed, il cantore del ‘lato selvaggio’ (Walk on the Wild Side), dei bassifondi urbani e delle menti devastate da vizi e passioni autodistruttive, con il quale, oltre a una lunga e leggendaria militanza nella migliore scena del rock and roll, con album destinati a sconvolgere per sempre il volto della musica mondiale, la stessa Patti Smith ha anche condiviso un’autentica e incrollabile devozione per la poesia.
«Parlò di tutto» continua, ricordando una notte in cui, ritrovatisi nello stesso albergo, fu invitata da Lou a salire nella sua camera. «Parlò con passione della lotta dei transgender, degli amplificatori Fender pre-CBS e della corruzione politica. Ma soprattutto, parlò di poesia». E del resto non viene in mente nessun altro, all’interno del panorama musicale, che allo stesso modo di Lou Reed abbia sempre nutrito l’ansia di essere riconosciuto come intellettuale, di venire ammesso nel novero dei letterati, nella torre della poesia. Nessun altro: neanche Leonard Cohen, neanche Fabrizio De André.
Di questa aspirazione Lou Reed sembra mostrarsi consapevole sin da subito, dal primo album d’esordio con i Velvet Underground, quello con la banana, per intenderci, la storica copertina disegnata da Andy Wharol. «Avevo altri obiettivi» dirà in seguito di quella prima, formidabile esperienza: «Hubert Selby, William Burroughs, Allen Ginsberg, Delmore Schwartz. Raggiungere quel che avevano fatto in uno spazio così piccolo e con parole tanto semplici. Ho pensato che se avessi scritto come loro, e fossi stato in grado di aggiungervi batteria e chitarra, avrei ottenuto la cosa più grandiosa al mondo». Qualcosa di radicalmente nuovo, soprattutto.
La sua segreta ambizione era e rimane di tipo letterario fino alla fine, fino all’ultimo, controverso, discutibile Lulu, l’album del 2011 scritto e registrato insieme ai Metallica; tuttavia non è qualcosa di propriamente scisso dalla parallela, totale, trascinante tentazione della chitarra, dal ‘cuore rock and roll’ si potrebbe dire, riprendendo il suo Rock and Roll Heart, disco del ’76 generalmente ritenuto minore perché schiacciato tra il precedente Coney Island Baby e il successivo, spregiudicato, potente, aggressivo Street Hassle.
Era stato iniziato alla letteratura dallo scrittore e poeta Delmore Schwartz, suo insegnante alla Syracuse University, presso cui si laureò nel 1964. Ne era rimasto folgorato e da allora ha tentato più volte la strada della letteratura ‘pura’, svincolata in toto dalla musica a ancorata saldamente alla pagina scritta. Ha scritto poesie, probabilmente per tutta la vita (e in proposito si rende necessario citare almeno il libro Do Angels Need Haircuts? Early Poems, uscito postumo nel 2018), ma ha anche saltuariamente battuto la via della narrazione breve, concisa, scandalosa, con esiti non trascurabili che in maniera decisa si riflettono almeno nella sua The Gift (1968). Ma i suoi esperimenti migliori rimangono comunque qualcosa di diverso: spesso si tratta di veri e propri recitativi, narrazioni in versi che nella dimensione vibrante della performance riescono a esprimere, a far esplodere tutta la loro più autentica e intima carica semantica. Sono versi semplici e diretti, ma non per questo immediati; anzi, non sempre può risultare chiaro come porsi dinanzi ai versi di Lou Reed. A volte disturbano. Parafrasando Antonin Artaud, si potrebbe dire che nelle sue canzoni Lou Reed insceni costantemente un sorta di ‘teatro della crudeltà’, e in proposito vale la pena di citare almeno alcuni passi del drammaturgo francese: «La crudeltà non è sovrapposta al mio pensiero; vi è sempre esistita: mi occorreva soltanto prenderne coscienza. Uso il termine crudeltà nell’accezione di appetito di vita, di rigore cosmico, di necessità implacabile, nel significato gnostico di turbine di vita che squarcia le tenebre, nel senso di quel dolore senza la cui ineluttabile necessità la vita non potrebbe sussistere» (Il teatro e il suo doppio).
Oppure, ancora:
Ma cos’è il teatro?
Una specie di grosso chiodo a forma di vite che si ha qui, sotto i
polmoni,
e che si avvita
e si svita.
Buona parte della forza dei versi di Lou Reed deriva proprio dall’abilità del suo autore di calarsi e immedesimarsi nei personaggi che interpreta, fino allo spavento, al sussulto, al soprassalto.
Si consideri ad esempio la sua The Bells, pezzo maestoso e pauroso che chiude l’omonimo album del 1979. Il testo, a detta dell’autore largamente improvvisato in sede di registrazione, evoca senza badare troppo alla linearità cronologica il ‘volo’ di un attore di Broadway che, alla fine di uno spettacolo, si ritrova probabilmente su un cornicione o sul tetto di un palazzo, crede di vedere un ruscello e si lancia giù, «volteggiando nell’aria», tra il suono delle campane, in un connubio perfetto di estasi mistica e tensione autodistruttiva, di epifania e, forse, suicidio. Si aggiunga anche che il titolo rimanda chiaramente all’omonima poesia dell’adorato Edgar Allan Poe.
Ah, solo Broadway lo sa…
La grande Via Lattea aveva qualcosa da dire
quando lui cadde in ginocchio
dopo aver volteggiato nell'aria. [...]
Guardando fuori,
pensava di aver visto un ruscello,
e gridò: «Guarda, ci sono le campane!»
e cantò: «Ecco che arrivano le campane…»
Oppure si prenda in esame il brano The Gun, del 1982, in cui il protagonista minaccia un uomo con una pistola, una Browning 9 millimetri, obbligandolo a guardare mentre abusa della moglie.
Il brano si stende lento e ossessivo, scandito dalla chitarra di Robert Quin e dalla ripetizione di alcuni versi chiave («carrying a gun, carrying a gun»), restituendo con una impassibilità un po’ disturbante tutta la carica di tensione e violenza perversa della scena, unita al senso di paura e terrore provato dalla vittima. Il tutto è riportato con una freddezza spiazzante e anche l’ascoltatore deve scegliere se immergersi nella scena, se rimanere uno spettatore.
L’uomo tiene una pistola, sa come usarla,
una Browning da nove millimetri...
Te la punterà in faccia,
dice che ti farà saltare il cervello [...]
Di’ alla signora di stendersi,
voglio essere sicuro che tu veda...
Tengo una pistola,
l’animale muore col terrore negli occhi,
non toccarlo, non toccarlo,
stagli lontano, ha una pistola.
Commenta Lou Reed a proposito del brano in questione: «Ho scoperto che, senza eccezioni, chiunque ascolti quella canzone reagisce con una paura totale. È pericolosa anche per me. Perché se canto una canzone, e c’è un personaggio cattivo, o drogato, o qualcosa del genere – a volte sono io e a volte no – quella canzone la vivo. La vivo davvero. Sotto molti aspetti è catartico. È interessante. È recitare. Mi piace sempre. Ma interpretare certi personaggi troppo a lungo ti segna. Certi versi sono molto brutali».
Sono versi brutali, dice, crudi, pericolosi; non mirano mai a rassicurare, a confortare. In genere non lasciano intravedere alcun accenno di pietà, e proprio per questo ci consentono di affrontare la questione fondamentale già accennata e a cui qui si vuole rispondere: come bisogna porsi di fronte ai versi di Lou Reed? Come si può fare ad apprezzarli? Di cosa parlano esattamente, c’è qualcosa che vuole dirci quando continua a ripetere «Fatti un giro nel lato selvaggio» (Take a walk on the wild side)? Perché è ossessionato da realtà notturne, spietate, metropolitane, presentandole con versi tanto diretti che possono scioccare, e a volte lo fanno in maniera imprevedibile?
In sostanza, cos’è che ci dicono davvero i versi di Lou Reed? E quale può essere il modo migliore per accostarsi alla sua poesia senza restarne turbati, sconvolti o, peggio, in alcuni casi, indifferenti?
Non vi è alcuna evidente ricercatezza formale riconducibile a moduli letterari tradizionalmente intesi, nessun preziosismo, nessuna concessione di ordine stilistico. Il suo approccio è diretto, spietato, a tratti quasi insopportabile... Va dunque da sé che il primo passo da fare per riuscire a comprendere e apprezzare la sua poesia consista proprio nel riconoscere che si tratta di versi che mirano a introiettare tutta la spregiudicatezza e l’intensità di una pagina di prosa. Paradossalmente, i suoi testi meno riusciti sono quelli in cui l’ambizione letteraria diviene fin troppo manifesta, anche a livello formale. Il lessico si eleva, la sintassi è un po’ più elaborata, alcune metafore sono ricercate, e tutto finisce per apparire quasi finto, perde d’interesse: non è questo che ci si aspetta da uno che ha visto l’inferno, non è certo il lavorio ozioso di un letterato ormai risolto.
«Volevo che quelle canzoni esorcizzassero l’oscurità o l’elemento autodistruttivo che avevo dentro» dice lo stesso Reed, e in proposito si pensi a brani come How Do You Think It Feels, tratta dallo straordinario Berlin (1973), disco lucido e spietato, in cui si racconta la fine della storia tra Jim e Caroline, tra abusi, ostilità, allontanamenti dei figli e violenze esibite.
Come pensi che ci si senta
quando sei strafatto e solo, [...]
quando sei sveglio da cinque giorni
alla ricerca costante di qualcosa
perché hai paura di metterti a letto?
O anche, sempre dallo stesso album, alla disarmante e dolorosa The Bed:
Qui è dove poggiava il suo capo
quando andava a dormire la notte
e qui dove sono stati concepiti i nostri figli,
con le candele che illuminavano la stanza...
E qui è dove si è tagliata la vene,
quella notte tanto strana e fatale.
Si leggano poi alcuni estratti da Underneath the Bottle, da The Blue Mask, brano meno noto, incentrato sul rapporto devastante con l’alcolismo:
Non riesco a completare un lavoro
con questi tremori che ho dentro, [...]
mi ritrovo dei lividi sulla gamba
e non ricordo quand’è successo.
E, infine, il brano Kill Your Sons, da Sally Can’t Dance (1974), che rimanda alle sedute di elettroshock a cui il giovane Reed era stato sottoposto dai suoi genitori a causa dell’insorgere di tendenze omosessuali.
Tutti i tuoi psichiatri da strapazzo
ti sottopongono all’elettroshock, hanno garantito
che ti avrebbero lasciato vivere con mamma e papà
anziché in qualche ospedale psichiatrico,
ma ogni volta che provavi a leggere un libro
non riuscivi ad arrivare a pagina 17.
Sono brani che parlano spesso di avventure notturne, di epiche urbane, rischiose, degradate, storie di autodistruzione e di perdita in cui si assiste a una specie di circo malsano, infetto, al destino senza rimedio di personaggi tanto poco raccomandabili quali padri violenti, aspiranti attrici disposte a tutto, tossici spiantati, senza una lira, in cerca di ‘roba’; tutte realtà che in genere si tende a ignorare, a rimuovere, a scacciare via, come non esistessero, come qualcosa di orrendo e deviato, e che Lou al contrario conosceva bene. Era quello il mondo da cui proveniva, il lato selvaggio appunto, ma attenzione: le sue canzoni rimangono comunque quelle di un intellettuale.
Era stato introdotto alle droghe da giovanissimo e aveva subito contratto una forma di epatite, dovuta all’utilizzo di aghi non sterilizzati, che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita. Poi, con il suo gruppo, i Velvet Underground, era stato notato da Andy Wharol. Questi era rimasto colpito dallo stile sperimentale della loro musica e dalla presenza di temi tabù quali la tossicodipendenza, l’angoscia esistenziale, le perversioni sessuali; produce il loro primo album e li accoglie nella Factory, il celebre studio newyorkese in cui risiedeva tutto un collettivo di artisti, musicisti, cineasti e in genere di eccentrici personaggi dediti a ogni forma di trasgressione. Ha visto l’inferno, ne porta addosso i segni, ma non per questo ha perso la lucidità. Lou non è Iggy Pop. La sua furia è composta, la sua rabbia è fredda. Semmai è cattivo, ma non è folle: Lou non è Jim Morrison, non è Friedrich Nietzsche e, ammettendo una qualche contraddizione, non è neanche Antonin Artaud. Non è logorroico, non è Allen Ginsberg, e soprattutto, per quanto in certi momenti sia stato visto come un simbolo di trasgressione, non è mai stato un hippie sgangherato: lui quei tipi lì li ha sempre odiati. Ha visto l’inferno, ma rimane un intellettuale. Incute una forma di rispettabilità un po’ perversa, e non c’è dubbio che ciò a cui si assiste nelle sue canzoni sia la realtà, sia tutto vero. Con il suo stile unico e la sua ambizione letteraria, ha lasciato un’eredità che continua a influenzare generazioni di artisti, offrendo una prospettiva spietata, ma incredibilmente affascinante, sulla condizione umana. Solo negli ultimi anni, dopo il matrimonio con l’artista Laurie Anderson, sembrava essersi un po’ addolcito. Ne rimane traccia in una splendida poesia con cui si conclude questo intervento:
Mi spiace, principessa,
sono lento ad amare.
Credimi, è inesperienza,
l’incapacità di mostrare affetto,
i lunghi minuti senza parole
e poi forse un maldestro sfiorare
mentre sorseggio vino, mentre ogni volta
ho pensato: «Diglielo!». Ma non l’ho fatto.
Invece rimango inquieto e pensoso,
come mi dicono facciano i bambini in adolescenza.
Ma non ho detto: «Ho percorso miglia,
fa così freddo fuori, per esserti accanto
senza piani o sotterfugi in testa.
So che sembro morto, imbronciato e silenzioso,
ma il mio bisogno più grande è essere con
te, in silenzio.
Non riesco a parlare di persona,
parlo per telefono,
senza guardare negli occhi, e poi dico
quello che di persona taccio.
Sono triste e lunatico,
e il tuo ottimismo mi allieta la vita.
No, non interpretare male il mio silenzio».
Sono silenzioso in due modi.
Se ce ne fosse un terzo, non ti guarderei
lavorare a maglia,
stando seduto a mettere un bottone, così.
Il fiore di plastica spostato,
i suoi occhiali, nuovi, posati sul naso
che conosco.
Riceverebbe il mio bacio se glielo dessi.
Ma continuo a sedere, possibilità incantate
e meravigliato della mia stupidità.
Ma non esserne ingannata.
Nella mia testa ci sono migliaia di parole
per ciascuna canzone d’amore.
*
Fotografia © Mick Rock
01/11/2024