di Alfonso Guida
Il rapporto tra letteratura e male è stato già ben decifrato da Bataille. Un vero poeta fa esperienza del male, non lo allontana. Lo ascolta come facevano con Satana i ‘Grandi Padri’ Antonio e Macario nei deserti dell’Alto Egitto, i più infestati dai demoni secondo la Vulgata ebraica. È nel deserto che finiva il ‘capro espiatorio’. Ed è solo lì che, con un meccanismo di proiezione facilitato dal paesaggio vuoto, sorge la visione.
Il poeta è fiume e oasi dove le belve tranquille si abbeverano nella notte. Il suo corpo appartiene a tutti, come il corpo di Cristo. La sua parola è il postribolo e la pietra che colpì Maria di Magdala. Preghiera e teatralità, supplica e gesto, colpa e indifferenza, la poesia è sempre figlia di due cuori contrastanti che entrano in comunione per poi scoprire che, in realtà, sono in guerra l’uno contro l’altro.
La musica resta il ‘vaso di elezione’. È necessario che il poeta senta più degli altri il profumo della rosa? che nel suo destino si ammucchino massacri? Lui incarna una bella molteplicità che non riesce a vivere e la irretisce nel numero due. Si allontana, vive l’esodo, si ammala.
Non esiste nessuna poesia civile. Per sua natura la poesia, che è animale ctonio, non si codifica attraverso i grafici di nessuna civiltà.
[...] il Nulla dorme chiaro
sotto gli occhi che sento domandare,
che guardo affievolire slancio e ritmo,
sembiante di ginepro e sambuco. Ora
forzo il carcere a prendermi nel sogno.
L’asceta, l’incensiere.
Sono cresciuto con un’idea aristocratica della poesia perché, per dirla con Schelling, ho pagato per quello che sono, non per quello che faccio. I libri che mi scelgo sono scritti da autori miei fratelli d’elezione, null’altro. Individuato il mio dramma e le sue ramificazioni negative, cerco nei libri tutte le spiegazioni. Non risposte risolutive, che pur possono esserci, ma similitudini o conferme o arricchimento o strade che mi portino al di sotto delle creature irrazionali e del luogo sidereo di Satana, volendo essere dei Padri del Deserto. La letteratura è contro la parola comune. Nasce da un’esigenza che vuole affermare l’oscurità in quanto oscurità e la luce in quanto luce. I miei autori non hanno mai avuto la possibilità di conciliare i contrari, di farli in qualche modo convergere. Sono rimasti scissi in una conversazione con sé stessi che non poteva avere fine come invece hanno fine le conversazioni tra gli avventori di un bar.
Da ragazzo chiamavo i poeti amati ‘maestri di amorosa insonnia’. Sentivo che erano la mia ‘sacra famiglia’ e che mi spingevano a cercare, a ri-cercare, a scavare, a raspare. La poesia come un atto che ci restituisce al randagismo dell’animalità e al ventriloquio del nomadismo. Non ho una terra di appartenenza, anche se non mi sono mai mosso dalla Lucania, dove vivo. Ma il mio cuore non si è educato nelle scuole del meridione d’Italia, che pure ho frequentato.
Avevo diciassette anni e già tutti i casi clinici di Freud passati in rassegna. A scuola l’insegnante di psicologia un giorno mi sequestrò Les Fleurs du mal ritenendoli nocivi per la mia strana e già sofferente sensibilità. Non è servita a molto la scuola pur essendo un ottimo studente. Mi formavo in cunicoli, sottoboschi, strade fuorimano, quartieri di morti, quartieri periferici di bische, di strade dove si fumava marijuana, di amori omosessuali nei lenzuoli sporchi di una locanda di Smirne o Salonicco. E intanto il paesaggio che nasceva da sé nei miei versi non era confondibile. Era il paesaggio delle colline di grano e delle vigne di un’infanzia del Sud.
Queste terre hanno sempre avuto l’immagine di un volto nella mia mente, non di un luogo. Ma un volto è un luogo. E il luogo del volto era l’altare di una vecchia che faceva da giumenta alle voglie brute e lunari del suo maschio, rozzo contadino senza eros, ma pieno di un sesso che doveva replicare la superiorità di un ruolo rispetto ad un altro, come nelle società animali dove esiste l’istinto. Ecco, i contadini avevano istinti come le bestie, non pulsioni irrefrenabili come i pazzi. E mentre la violenza carnale di una terra mi prendeva da una parte, l’odore dell’etere della società mitteleuropea mi prendeva dall’altra. Come Kafka scrivere per me è stato tradire la mia famiglia.
Scrivere per chi è ligio al dover essere è il gesto di un parassita. Per me e per la mia vicenda poetica è valso l’urlo di Marina Cvetaeva: «Tutti i poeti sono ebrei».
Ancora oggi vivo in diserzione convinto che dopo una paternità si va nel mondo da orfani. La vera poesia è sempre l’atto di ribellione di un orfano.
29/09/2020