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Title

Fuoricampo

UNA CRUDELE DOLCEZZA:
SULLA POESIA DI
OCEAN VUONG

di Domenico Iannaco

Ocean Vuong svetta nella scena poetica anglo-americana per contenuti e tratti stilistici che rendono unica la sua voce. Nato ad Ho Chi Minh (Vietnam) nel 1988, si trasferisce negli Stati Uniti con la famiglia nel 1990. Dopo due chapbook, pubblica il suo primo libro – Cielo notturno con fori d’uscita – nel 2016, vincendo il Forward Prize Poetry per l’opera d’esordio nel 2017. Nello stesso anno la raccolta compare in Italia, tradotta da Damiano Abeni e Moira Egan per La nave di Teseo.


Una buona parte della poesia americana più recente sembra essere caratterizzata da aspetti ben precisi: da un lato echi dei confessional poets, dall’altro riprese di vari temi del pensiero liberale; si avventura, poi, in una riscoperta delle diversità, delle minoranze, arricchendo la storia statunitense di tanti ‘piccoli’ racconti paralleli. Si tratta di una poesia che non può essere definita solo civile: è più estrema, combatte per una maggiore giustizia, ha anche una vocazione storica o anti-storica, come si preferisce. Difficile da definire, vuole comunque anticipare i tempi, ponendoci davanti a un nuovo modo di contestualizzare la voce, parlando agli uomini ‘di buona volontà’ che ne condividono le idee. Il rischio è una certa prevedibilità, una banalizzazione dello spirituale o del filosofico. Naturalmente, è complicato approfondire l’analisi: la poesia ha bisogno delle persone, dei poeti.


Ocean Vuong si colloca, dunque, nel paesaggio descritto. Stilisticamente predilige una tonalità elegiaca, mostra una grande padronanza linguistica e sa di affrontare temi, ricordi che sono «semplicemente difficili» e richiedono un registro formale appropriato all’intensità dell’oggetto. Qualche volta – rarissime volte, in effetti – pare soffermarsi più del dovuto su quello che gli sta a cuore.

Se, come dicevamo, la nuova poesia d’oltreoceano mostra di condividere una matrice stilistica (ed è forse un effetto delle scuole di scrittura creativa), nel caso di Vuong essa è temperata dalla fluidità del verso e dall’amalgama sentimentale che è una delle peculiarità della sua lirica. Il poeta non finisce mai col fare dell’episodio un elemento che disintegra l’esperienza del verso. Ciò che sorprende di più del suo primo libro – definito da un uso creativo dell’inglese (cioè meno legato all’uso comune delle parole, alla loro stratificazione quotidiana), meno frequente nel secondo, più regolare e linguisticamente prevedibile – è la violenza della verità: Vuong non dice ‘cose dure’ per sconvolgere, ma destabilizza il lettore parlando con dolcezza di qualcosa che, per  sua natura, è crudele, terribile, difficile da digerire. Si può anche parlare, nel suo caso, di intrinseca sensualità del linguaggio, non perché l’autore la ricerchi, ma probabilmente perché, provenendo da una linea di pensiero di matrice buddista, tende a rendere i concetti astratti tramite sensazioni e movimenti dei corpi. Alcune rotture della regola delle fluidità sentimentale sono, sicuramente, volute.


La pubblicazione di Cielo stellato con fori d’uscita è uno di quegli avvenimenti che gli amanti della poesia devono ricordare. Si ha subito l’impressione di trovarsi davanti a un autore elegiaco e paradossale, capace di evocare spettri nel tentativo di accettare le sue radici e la sua identità. Pare che la linea poetica descritta abbia raggiunto il suo vertice: Vuong, nella raccolta d’esordio, fa emergere la poesia dalle sue origini vietnamite, articola nei suoi versi non tanto la narrazione di una storia, quanto quella degli effetti di eventi traumatici che lasciano un segno indelebile sulla definizione dell’identità (tra questi, la guerra in Vietnam che ha coinvolto tutta la sua famiglia).

La tendenza alla riscoperta delle minoranze trova così un’anima. Sono tante le liriche che sembrano partire dall’idea del PTSD, ma qui c’è una coerenza di fondo, un’individualità centrata. L’amore omosessuale, ad esempio, è un altro tratto indimenticabile della raccolta (e dell’opera del poeta in generale) perché rende ancora più denso il viluppo di cui si è detto.


Il trauma, tra l’altro, conferisce a chi l’ha subito grande energia, e un punto di vista ‘definitivo’ sugli eventi: bisogna ‘soltanto’ accettare l’impotenza di fronte agli eventi stessi. La voce di Vuong acquisisce, allora, questa saggezza traumatica: il verso, anche quando maneggia una materia caotica, è ben definito, ha il tono tipico di chi è andato oltre l’esperienza. Il passato traumatico è il presupposto dei modi confessional dell’autore. Si giustappongono, poi, elementi mitici: si ha appunto la sensazione di leggere da un punto di vista altro i temi più ‘alla moda’ dell’odierna poesia americana. Tuttavia, in Cielo stellato con fori d’uscita, la scoperta della diversità (intesa come appartenenza a culture diverse o orientamento sessuale non binario) non è assolutamente aderenza a una versione letteraria del politicamente corretto (peccato di molti poeti e critici, che dialogano seguendo regole stabilite). Vuong parla attraverso i corpi, attraverso dettagli corporei: questa sua aderenza al vissuto è volontà di nominare oggetti, parti del corpo, attribuendogli liricità («Le dita di lui corrono sull’orlo / del vestito bianco»); di qui la misteriosa sensualità (o ‘sessualità’) che rende la sua voce così intensa. Alla fine si resta stupiti, nonostante qualche intemperanza.


Per concludere, di Cielo stellato con fori d’uscita rimane senz’altro la determinazione di alcuni versi. Vuong, nel bene e nel male, è sempre cosciente del proprio tono, e della stessa materia poetica. Resta il dubbio se abbiamo letto qualcosa sulla vita o sulla morte, sull’onnipresenza del dolore o sulla caduta nel nulla («Mia madre aveva detto che sarei potuto diventare / tutto quello che avrei voluto – ma io ho scelto di vivere»), ma forse è un bene che sia così.



UN PO’ PIÙ VICINI AL BARATRO


Giovani abbastanza da credere che niente

li cambierà, scendono, mano nella mano,


nel cratere della bomba. La notte piena

di denti neri. Il Rolex falso di lui, settimane


dopo essere andato in frantumi sulla guancia di lei, adesso

s’affievolisce come una luna in miniatura dietro la sua chioma.


In questa versione il serpente è senza testa – reso immobile

come una corda sciolta dalle caviglie degli amanti.


Le solleva la gonna di cotone bianco, rivelando

un’altra ora. La mano di lui. Le mani. Le sillabe


dentro di loro. O padre, O premonizione, stringiti

a lei – mentre il prato viene lacerato


dagli stridi dei grilli. Mostrami come la rovina costruisce una casa

fatta di femori e anche. O madre,


O mano minuta, insegnami

ad abbracciare un uomo come la sete


abbraccia l’acqua. Fa’ che ogni fiume invidi

le nostre bocche. Fa’ che ogni bacio percuota il corpo


come una stagione. Dove le mele tuonano

sulla terra con zoccoli rossi & io sono tuo figlio.



AUTORITRATTO IN FORMA DI FORI D’USCITA


Invece, che sia l’eco di ogni passo

affogato dalla pioggia a tranciare l’aria come un nome


gettato su una barca che affonda, a spingere tra spruzzi la corteccia del kapok

dentro il marcio & il ferro d’una città che cerca di dimenticare


le ossa sotto i marciapiedi, poi dentro il campo profughi

nauseabondo di fumo & inni a mezza voce,


una baracca di ruggine nera & accesa dall’ultima candela

di Bà Ngoai, i grugni dei porci che reggevamo in mano


e credevamo fratelli, lasciamo che entri in una stanza illuminata

dalla neve, arredata solo di risa, pane della Wonder Bread


& maionese portati a labbra screpolate come testimonianza

di un trionfo che nessuno ricorda, che accarezzi la gota rubizza


del neonato mentre il padre lo prende tra le braccia, inghirlandato

di visceri di pesce & Marlboro, e tutti fan festa mentre un altro


muso giallo si sbriciola sotto l’M16 di John Wayne, il Vietnam

che brucia sullo schermo, lasciate che entri da un orecchio e esca dall’altro,


livido, come una promessa, prima che buchi il poster

di Michael Jackson che luccica sul divano, nel


supermercato dove una donna Hapa è pronta

a credere che ogni bianco che la prende per il naso


è suo padre, lasciate che possa cantarle, brevemente, in bocca

prima di farla sdraiare tra i barattoli di pelati


& le scatole blu della pasta, la mela rosso cupo che rotola

dalla mano, poi in una cella di prigione


dove suo marito se ne sta a guardare la luna

fino a convincersi sia l’ultima ostia


che dio gli ha rifiutato, lasciandosi colpire la mascella come un bacio

che abbiamo dimenticato come scambiarci, sibilando


a ritroso fino al ’68, alla Baia di Ha Long: il cielo soppiantato

dal fuoco, il cielo a cui solo i morti


alzano lo sguardo, che possa raggiungere il nonno che si scopa

la contadinella incinta sul retro della jeep militare,


coi capelli biondi che gli rilucono nel vento infocato dal napalm, che lo inchiodi

nella polvere da cui sorgono le sue figlie future,


dita scorticate da sale & Agente Arancio, che aprano

la sua tenuta di corvée color oliva, che afferrino il nome che gli pende


dal collo, il nome che si schiacciano sulla lingua

per ri-imparare la parola vivere, vivere, vivere – ma se


non per altro, lasciate che intrecci io questo raggio di morte

come una cieca ricuce un lembo di pelle


sulle costole della figlia. Sì – lasciatemi credere di essere nato

per armare questo fucile, lucido & lustro, come un vero


viet-cong, come i passi di spettri brumosi nella pioggia

mentre mi chino sul mirino – & prego


che non si muova niente.



GIORNO DEL RINGRAZIAMENTO 2006


Brooklyn è troppo fredda stasera


& tutti gli amici sono lontani tre anni.


Mia madre aveva detto che sarei potuto diventare


tutto quello che avrei voluto – ma io ho scelto di vivere.


Sui gradini di una vecchia casa in pietra bruna


una sigaretta balugina, poi svanisce.


Mi ci avvicino: rasoio


affilato dal silenzio.


La mascella dell’uomo incisa nel fumo.


La bocca attraverso cui rientro


in questa città. Sconosciuto, eco


tangibile, ecco la mia mano, piena di sangue diluito


come le lacrime di una vedova. Sono pronto.


Sono pronto a essere qualsiasi animale


ti lascerai alle spalle.



*

Le tre poesie di Ocean Vuong riportate in calce sono tratte da Cielo stellato con fori d’uscita (La nave di Teseo, 2017), nella traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan.


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Fotografia © Alan Schaller


05/06/2025

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