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Fuoricampo
TUDOR ARGHEZI.
L’ELOGIO ALL’EVOLUZIONE
di Alvise Masto
Universalmente considerato uno dei più grandi scrittori di lingua romena, Tudor Arghezi per gli studiosi è il grande artigiano, colui che, dopo Eminescu, ha realizzato la più profonda riforma della lingua poetica che la letteratura romena moderna registri. E solo il fatto di aver scritto in una lingua di ridotta circolazione fa sì che non si parli ancora molto di lui come di Rilke, Lorca o Machado, Pound o Eliot, Esenin o Majakovskij: questa è la convinzione di chiunque si accosti alla sua opera.
Tudor Arghezi (pseudonimo di Ion N. Theodorescu) nasce a Bucarest il 21 maggio 1880, figlio di Nae Theodorescu, originario di Cărbuneşti. Fino al 1891 il piccolo Ion frequenta l’istituto “Petrache Poemaru” di Piazza Amzei a Bucarest, per poi iscriversi nel liceo “Dimitrie Cantemir”. Ma ben presto per ragioni economiche è costretto ad interrompere gli studi regolari e ad intraprendere vari e occasionali mestieri (apprendista scalpellino, operaio in uno zuccherificio, ecc.) fino alla scelta monastica nel 1899.
Con il nome di Iosif si ritira presso il monastero di Cernica (fondato nel 1608), nei pressi di Bucarest. Dopo sei mesi di noviziato viene ordinato diacono e successivamente, nel 1905, viene mandato in Svizzera, a Friburgo, per approfondire gli studi teologici.
Non si pensi ad un tentativo di soluzione civile ed etica della vita, di questo «dolore sordo ed amaro». La risoluzione semmai vorrebbe essere spirituale, ma nella poesia di Arghezi la spiritualità si risolve in due sentimenti opposti: quello panteistico, per cui ogni cosa – l’universo e la natura – è permeata da un Dio immanente, e quello più classicamente del divino, inteso come continuo ed incerto prostrarsi a un Dio che non ci risponde e al quale alterniamo obbedienza e ribellione. Un mistero insolubile che lega Arghezi e l’umanità tutta a una catena incessante di interrogativi: «C’è qualcosa di non misterioso nel mondo?», «Come? il corpo, da solo, un po’ d’argilla e polvere, saper cos’è il timore? e la pietà e l’amore?».
L’esistenza di Dio, la relazione tra l’essere e l’assoluto, l’immortalità dell’anima, il dualismo tra carne e spirito, sono alcune delle principali questioni che ossessionano Arghezi. Ma il poeta mal sopporta l’arbitrio e la disciplina della vita religiosa con la sua mente retrograda, caratteristica e furba. Nonostante il divieto, fonda una rivista letteraria (servendosi di un amico come prestanome), «Linia Dreapta» (La Linea Dritta), in cui pubblica una serie di poesie, Agate nere.
Dopo quattro lunghi anni, avendo raccolto intorno alla sua persona sarcasmo e molte polemiche, abbandona l’ordine. Si reca a Ginevra e poi a Parigi, dove lavora come commesso viaggiatore e scaricatore. Torna poi a Ginevra, lavora alla fabbricazione di casse di orologio e rientra in Romania dopo aver ricevuto la chiamata militare nel febbraio del 1910. Un volta rientrato svolge una indefessa attività giornalistica e pubblicistica, per la quale non passa sempre indenne tra le bufere dei tempi.
Conosce infatti per due volte l’esperienza del carcere: una prima volta per l’attività di stampa svolta al tempo dell’occupazione tedesca durante la prima guerra mondiale e in seguito, nel 1943, per il pamphlet Baroane! scritto contro l’ambasciatore tedesco. Soltanto nel 1927, ormai vicino ai cinquant’anni, consentì a pubblicare la sua raccolta d’esordio Cuvinte potrivite (Accordi di parole), ma da quel momento la sua presenza sulla scena letteraria sarà costante e subirà soltanto una dolorosa interruzione negli anni iniziali del consolidamento del nuovo regime popolare.
«Sono passato tra i vortici – scriveva nel ’41 – come un cane che non si lascia travolgere, preoccupato di sottrarre al naufragio un solo oggetto. L’oggetto del mio cane era... la penna. L’ho tenuta in bocca per anni con coraggio». E già nel ’28, un anno dopo aver dopo aver rotto definitivamente il lungo silenzio editoriale, osservava: «Scrivo da quarant’anni, ma debutto ogni giorno, come la prima volta, quando riempii di segni un foglio di carta. Sono uno scolaro eterno. Meno di uno scolaro, sono un ripetente. Il numero della classe dalla stoffa della manica mi è passato sul braccio: galeotto per sempre del pensiero sepolto nella parola e cemento insieme con essa».
A questa prima opera, Accordi di parole, che s’impose per la vigorosa, inconfondibile originalità dell’invenzione verbale, Arghezi fece seguire una serie di raccolte in cui traspose la sua complessa personalità di artista e di uomo, passando dal romanticismo anticonformista di Fiori di muffa (1931), in cui rievoca la sua tormentata esperienza giovanile, alla soave delicatezza della Vespertina (1935), evocazione delle tenere gioie della vita familiare, all’eleganza un po’ funambolesca di Girotondi (1939), dove il poeta s’abbandona a un gratuito e un po’ manieristico gioco di assonanze e di rime.
Dopo il lungo silenzio degli anni di guerra, e con la definitiva consolidazione del regime popolare, il poeta ebbe un ritorno di creatività con le due grandi raccolte cicliche 1907 (1955-56), dedicata ai moti contadini dell’inizio del secolo, e Inno all’uomo (1956), che fu considerata, dal celebre saggista Tudor Vianu, «il prodotto più rappresentativo della nuova cultura socialista».
Cîntare omolui (Inno all’uomo), che Rosa del Conte, celebre filologa romenista, non esitò a definire come uno dei documenti più alti della lirica universale, segna il passaggio definitivo per il poeta a una nuova visione dell’uomo e della sua storia. Arghezi vi affronta, in chiave di teorie evoluzioniste, il tema dell’origine dell’uomo, della sua affermazione sulle forze della natura e su sé stesso, come individuo e come collettività. Distoglie l’uomo dall’antica e biblica ossessione del fango e lo colloca, come un martire vittorioso, davanti al suo destino. Senza rinnegare nulla degli elementi che costituiscono l’oscuro magma originario, il poeta rappresenta il divenire storico come un processo puramente umano, e non come il riflesso di avvenimenti della trascendenza; riafferma la superiore vocazione dell’uomo ed esige che la natura umana sia in grado di assumere la responsabilità e il peso della suo genio. Questa capacità Arghezi la pretende soprattutto dall’artista in quanto «è un frutto che matura dalle ossa degli antenati, è il portatore di valori ancora allo stato latente nella coscienza della massa».
Si tratta di un atto d’omaggio e sottomissione del poeta al nuovo regime? Di un poema edificante a sfondo sociale secondo i dettami del realismo socialista? Oppure di una profonda adesione alla nuova realtà politico-sociale che gli cresceva intorno e che inevitabilmente determinava e condizionava le scelte della sua poesia?
Presentando in un profilo necessariamente frammentario l’ultima grande opera di Tudor Arghezi, pensiamo che una risposta si debba trovare nei meandri di questo elogio all’evoluzione, nella forza di commozione che emana. Questo è il portale che ci dovrebbe introdurre in un poema che si è riconosciuto una posizione di impegno e adesione, rispetto alle idee di un nuovo umanesimo, in cui l’uomo è in grado ormai di cogliere, dopo aver allontanato la terra dalla sua bocca ai suoi piedi, le vaste e nuove dimensioni del mondo che lo circonda.
L’OMBRA
T’inseguo attraverso ere, e secoli e millenni,
sin da quando incurvavi la tua schiena carponi,
quando, solo e spaurito, strisciando fra i fantasmi,
t’aggiravi soltanto in cerca di giaciglio e di cibo.
Nella quiete e nel moto tua compagna muta,
copia che ti aderisce, sul modello tagliata,
ci serravamo a fianco, aguzzando l’ascolto,
al rado e greve passo d’una belva affamata.
Celato fra antri e fosse, io sempre al tuo fianco,
tu non sapevi che siamo in uno solo due,
per la vita accoppiati di due diverse essenze,
per la fragile trama d’aria che sta fra noi.
Io sono la tua ombra, mai più dall’uom disgiunta,
entro una stessa linea che ne schizza il contorno,
sull’infocata polvere, sovra la pietra logora,
come una ragna nera che ti si muove attorno.
Sono il brindel di notte, che ti è donato al nascere,
ed esco ed in te entro, all’alba e al tramonto.
Da me vieni e in me torni, nella tenebre vasta
che si frantuma in uomini ed in labili giorni.
Sta scritto in me il destino, con invisibil segni:
interrogalo, onde sappia s’è compimento o perdita.
I cardini murati scivolano silenziosi,
passar lasciando appena – quasi simbolo – un fumo.
IN CAMMINO
D’allora in poi il fuoco, l’elemento straniero, dare inizio doveva
a un’età che dall’acque s’ebbe destino e limite.
Hai sposato la fiamma con le acque in turbine,
a muover moltitudini di forni e di mulini.
Allor – la prima volta – nel fumo ti fu chiaro
Che t’eri aperto innanzi, altro scopo e nel ciel una via.
Ha sussultato l’etra e rimbombò l’abisso
Quando s’udì il martello sul fil fender l’incudine.
T’occorrevano ferri pei cavalli non domi
e morsi e lance e scudi e d’argento e di bronzo
per affrontar di petto la minaccia concorde
della sorte maligna, del maleficio e dell’insidia ignava.
Da allora sei rimasto in allerta e ribelle,
quante volte i padroni e il tempo ti han mentito.
FINO AD ALLORA
Non scordar fino all’ultimo la solenne domenica,
quando a un tratto dalla polvere su ti levasti in piedi.
Il tuo sguardo strisciante e invischiato nel fango
la prima luce accolse dal lontano orizzonte,
e svincolato alfine e da melma e da terra,
divenne penetrante e libero e sovrano.
Una radice eri e neanche ancor tronco:
di sotto a te l’hai svelta, contro il ginocchio rotta,
e – sciolto dalla condanna d’impietrato schiavo –
ti sei strappato al luogo della tua pena, e avviato:
in alterno equilibrio sulla pianta e il calcagno,
fosti il primo a raggiungere l’alta verticale.
Da giù il capo avevi alzato al richiamo del sole,
e il tuo pensiero prese in quell’istante il volo.
Tu hai vinto la terra, la tomba e il tuo destino.
Aveva vinto se stesso il non atteso – l’uomo, lo straniero.
*
Le traduzioni qui presentate rappresentano un prezioso contributo di Rosa del Conte, figura intellettuale di straordinario spessore, che ebbe il merito di far conoscere e apprezzare in Italia la letteratura e la cultura romena.
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Fotografia © David LaChapelle
21/10/2025


