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Fuoricampo

SU “NOTTURNO FORMALE”
DI STEFANO BOTTERO

di Alfonso Guida

In questa sua opera seconda da poco uscita per Industria & Letteratura, il quasi trentenne romano, trapiantato a Venezia, Stefano Bottero oppone la morte per claustrofobia alla morte per consumazione. Scrive così: consumazione, non consunzioneerosione. Sostanziale differenza.


Chi consuma nei versi di Bottero? Chi è consumato? Noi, noi consumati. Noi, scrive, «termineremo per consumazione». Saremo mangiati, masticati, inghiottiti, restituiti.

L’epoca è l’epoca postuma. Dove nulla permane e tutto è usato e gettato, spolpato, stecchito, abbandonato. L’epoca dell’indifferenza negativa, violenta, tra omertà e inerzia, tra svogliatezza e accidia, l’indifferenza degli spiriti morti, ciechi, incapaci di voltarsi, tesi al precipizio, inesorabilmente. 

L’indifferenza assolutamente non stoica. L’indifferenza assolutamente chiusa e sottoscritta dal sigillo di un trasparente quanto anonimo No. L’indifferenza dell’epoca de-umanizzante e deprivata di ogni voluntas che non fosse la volontà di potenza distruttiva e atomica dell’uomo da polverizzare, da far sparire. Nell’epoca del suicidio terrestre, il fondatore dell’antropologia negativa, l’eretico heideggeriano Gunther Anders parlava di «consumo permanente del mondo». La profezia di Adorno e di Pasolini è diventata storia. E Bottero può solo prenderne atto, constatarlo: «termineremo per consumazione». Canetti ricorda che nelle società antropofaghe il silenzio è putrefazione.


Ci si consuma per fare dietrofront. È una tattica escogitata, con la sua feroce e inesorabile teleologia, per tornare indietro, regredire, voler morire. Le sante anoressiche, le ragazze anoressiche, le grandi digiunatrici del deserto come l’Ammà Maria Egiziaca o come un qualunque cenobita egizio del IV secolo. Anche Bottero sembra custodire la certezza del ritorno in un futuro imprecisato e lontano, forse remoto e mitologico, primitivo e primordiale, così primitivo da lasciar intravedere con chiarezza il desiderio di scomparsa, di ricomporsi fantasma o, come scriveva l’antica saggezza nipponica, «diamante della legge». Cuore, in ogni caso, tuorlo, nucleo, essenza, sostanza prima, sostanza generativa, punto fermo fissato nello spazio come unione di inizio e fine, di prossimo e remoto, di ogni verità e del suo contrario, anch’esso vero, come ricordava Siddharta. Bottero scrive: «scoloriremo come notte / in posizione fetale ad aspettare / il tuo ritardo diventare indispensabile / latrati / di creature abbandonate troppo a lungo». Ecco, quel desiderio di attenuazione dell’io quantunque si tratti di un io sovrasensuale e dispendioso arginato e avvolto da un’apparente cortina di ghiaccio, una bramosia incontestabilmente viva e imperiosa, come tutti i più veementi ardori, è il fuoco necessario di chi ingiunge l’alt alla richiesta di presenza e abdica o si destituisce, abiura o ritratta, imboccando la strada di ritorno verso l’indistinzione, l’Apeiron, nel grembo materno dei primi giorni di formazione dell’embrione, quando il sesso non è ancora ben chiaro. Un desiderio, quello di Bottero, che supera e oltrepassa con coraggio la biforcazione dei generi toccando, nell’immaginazione attiva, l’uovo primitivo, il  «vagito tenue e femminile», come mi raccontò lui stesso, un vagito femminile nel senso di infantile, se non addirittura neonatale.


Si erodono, dunque, suoli rocciosi e coste, si erodono le monete per esprimerne la progressiva riduzione aurea, si erodono i tessuti organici a mano a mano che una lesione, una ferita, un’ulcerazione aumenta il proprio raggio di amplitudine, si erodono le pietre per opera dell’azione delle acque.

Bottero, ecco, all’interno della tripla sequenza erosionale di distacco-rimozione-trasporto, sembra collocarsi nella prima fase, quella del distacco e della separazione fisica.


L’alcohol, i cerimoniali di teatro della dipendenza, la perversione raccontata restando al di qua di una ben precisa soglia di scrittura, lo spirito di presenza critica tra spinta all’esser-ci e sentimento della reticenza, la speranza taciuta di una via laterale su cui stagliarsi, come una sentinella o una torre di vedetta o un asceta, per osservare, con precisione chirurgica e algida, ogni moto pendolare del respiro, ogni moto sismico del terreno di cammino, ogni campo del suo pellegrinaggio. Non sappiamo dove Bottero andrà o stia andando, ma è certo che è stato traghettato, dislocato, de-territorializzato.

Aspetteremo sperando mentre intorno è la casa del passato, un appartamento di città col suo esterno piovoso o assolato, stratificato, come la visione del mondo attraverso l’opale del finestrino di un tram.


Poesie del transito, della notte come transito. Registrazioni o dispacci dove «tenere il conto delle cose» vale più che ‘tenere in conto le cose’, dove l’elenco, il significato del numero, l’infinito del papiro e delle sue nominazioni incolonnate valgono più del reale significato della singola cosa perduta o dimenticata o accantonata. Poesie del tempo, degli anticipi e dei ritardi, dello sguardo ossessivo sull’orologio.


C’è un vettore di allontanamento del principio di creazione dall’alto verso il basso.

C’è un retrostante, profondo, inconscio paesaggio primitivo dove si assiste alla caduta come genesi storico-umana del respiro. Bottero parla di un respiro che crolla negli oggetti animando la distanza allucinatoria della paralisi psichica, un ondeggiare maniacale di ritualità senza propiziazione e visioni di incubi da veleno, droghe, intossicamento etilico, visioni tanto più terrorizzanti quanto più nude e spettrali, visioni che si radicano nella scatola limbica di un quartiere cittadino, come in una cella di penitenza, con un tu femminile dominante e sadico, tirannico e istituente, forse razionalista-ateo-anarchico come un qualunque personaggio sadista. Bottero, così, lo si vede gattonare come un animale al guinzaglio. Gattonare, posizione fetale, cullarmi, parole ed espressioni care al poeta, frequenti nel suo lessico. Termini che sono accomunati dal contesto in cui come azioni si realizzano, si avverano, si verificano: la prima infanzia: il tempo che ha un solo estremo nei primi anni di vita; l’altro non c’è, si perde nel buio amniotico o nel buio dei non-nati. Fantasia di sparizione e istinto di morte, direbbe il portavoce di una qualunque scuola psicoanalitica. Un tempo che si estende a ritroso, retrocedendo, indietreggiando fino alla perdita della stessa vita in un semplice notturno formale di città. «Sentimento di perdita», non a caso, è l’espressione con cui Bottero chiosa una delle ultime poesie del libro.



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Immagine di copertina: Karl Friedrich Schinkel, scenografia per il Flauto magico di Mozart, 1815


03/11/2023

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