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Fuoricampo
ROSSELLA OR: UNA VOCE
TRA TIMPANO E PUPILLA
di Giuseppe Ferrara
Faccio sempre più mie le parole di Auden per il quale le poete e i poeti esistono perché le loro note-parole vengano suonate-citate; la voce, quella scintilla che scocca tra timpano e pupilla, nasce ‘solo’ per mettere in scena canto, suono, ritmo e danza della parola.
I grammatici antichi cominciavano proprio dalla voce i loro trattati sul linguaggio, badando a distinguere bene, fin dall’inizio, il nitrito dei cavalli, il latrato dei cani e il verso degli uccelli dall’articolazione vocale degli umani. E cosa è mai un’articolazione se non propriamente un ‘verso’?
Come l’amore di un timpano,
e una pupilla, fuori e dentro di sé
( dialettica )
Situare il linguaggio nella voce significa articolare insieme non solo il suono e il senso ma anche corpo e mente, abilità e sapienza della nostra specie.
L’articolazione vocale è dunque un riflesso diretto dell’articolazione umana. In questi tempi di voci digitali, è chiaro che il problema è essenzialmente specifico, perché è da questa riflessione che emerge ciò che è umano e ciò che non lo è.
Essere fedeli custodi dell’articolazione vocale è anche un compito decisamente politico, soprattutto in un’epoca come la nostra che cerca con ogni mezzo di confondere il suono e il senso delle parole. Paradossalmente forse sta proprio qui la giusta definizione di ‘essere umano’: individuo in grado di riconoscere il caos e la falsificazione.
Ecco perché è necessaria un’articolazione di voce come quella che, con il suo Come l’amore di un timpano e una pupilla (Argolibri, 2025), Rossella Or ci presta e, attraverso la poetessa russa Marina Cvetaeva, ci ricorda.
Come l’amore che scocca tra occhio e orecchio è questa voce poetica prestata dalla Or e che a mia volta presto. Se la nostra pupilla rotonda permette di regolare l’inversione figura-sfondo, arbitro assoluto della percezione umana, se il nostro timpano ha consentito di registrare suoni ancestrali quando non eravamo ancora nati, allora la voce, anzi questa voce-canto della Or, esprime e testimonia un istintivo tratto specie-specifico: la necessità di condividere.
Dal bastone che può aiutarci a buttare giù le olive cresciute sui rami più alti, al sincrotrone che riesce a rilevare il bosone di Higgs, dalla ‘nuova’ cometa osservata in uno spicchio di cielo remoto, alle immagini, suoni e parole risonanti nel nostro inconscio, tutte queste cose ci dicono che la nostra specie ama condividere sogni, storie e teorie, le linee di canto e le rotte migratorie, le immagini di terre ignote e le origini delle parole.
UNA LINEA DI CANTO
Se fotografavi il contorno delle rive
sulle pareti stesse dell’ignoto,
nell’eco del confine dalle scale, nella sala aperta
questa notte inseguita da una riverenza onirica,
la notte non parlando, la sua nudità nervosa
l’eco dell’acqua sull’organo del cuore sfiora
i timpani, una mancanza d’aria, insularità, radioonde
non scavalcare il recinto, o toccare il fondo, il vuoto
il turgore degli steli allora,
questo resto, converte lo spirito delle migrazioni
in una residenza, recinta l’anima tra soffio e realtà.
Questa notte che affonda i suoi atomi, in un cimitero marino
una linea di canto, nell’enigma del corpo
qual è la sua dimora, una porta semplice, il muro
debole, una linea di canto, e nell’intervallo
verbale come una figura, tra figure vicina,
e tra le fessure della vita, il niente vicino
e da lontano, ancora più lontano quello che sospende
le accelerazioni, i contrasti, la rarefazione delle voci
delle costruzioni delle vie d’uscita, composant
Il pensiero improvviso di una specie vivente,
locale (l’occhio), ancora una prospettiva aerea
una distanza marina, ancora un modello
vegetale di crescita mediante mille leggi oppure
qualcosa che escluda gli infiniti, ascenda al ciclo
dell’acqua nel sole, tra le nuvole e la neve
il ghiaccio, e il mare, il sorriso possibile tutto
nella sua solitudine, ancora nei limbi dell’alba
di un seno nudo, ancora nella coscienza della voce
Cantate questa tensione nella linea di una forma pari
al senso delle restanti cose, questa notte confusa
tra soffio e realtà, il sorriso possibile
atomi, una linea di canto.
La forma assoluta della condivisione è da sempre il teatro. Non a caso l’autrice, nata a Roma il 6 marzo 1954, inizia giovanissima a calcare le scene dell’avanguardia romana (in spazi come, ad esempio, il Beat ’72), recitando in diverse pièce. A partire dagli anni ’80 intraprende anche l’attività di autrice e regista teatrale. Negli anni Duemila arricchisce il suo percorso interpretativo con il cinema, prendendo parte ai film Regina Cœli di Nico D’Alessandria e Estate Romana di Matteo Garrone, dove interpreta sé stessa. Nello stesso periodo pubblica la sua prima raccolta poetica, L’acqua tende alle rive: poesie 2011–2017 (Zona, 2017).
Ora, quando la condivisione si esprime attraverso un’arte scenica, può assumere i tratti di una vera immedesimazione: e non esiste forse forma di condivisione più profonda di quella con una guida, un maestro. Rossella Or dedica a Marina Cvetaeva la seconda sezione della sua raccolta. Ed è proprio la poetessa russa la guida con la quale la Or condivide e immedesima sé stessa, la maestra con la quale ama sversare e riversare versi in un rapporto quasi schizofrenico.
Se c’è una donna che ha fatto esperienza esistenziale di quel meccanismo schizofrenico che l’antropologo Gregory Bateson definì «doppio legame», questa donna è la Cvetaeva che viene colta e accolta dalla Or.
VIVA
Viva nella differenza,
tra la verità di una fuga, e la certezza
di un inseguimento, in tempo
essere sulla riva curva di maggio
del mare, un sasso tra le gocce di mare
e al sole cucendo, gli scoppi di risa straniere
serale, per la sua acqua potabile non lontana da qui
vaga, solitaria nel sole una facoltà
del profondo, ancora la filosofia per ogni gesto
spirituale ancora per un’ottica,
per una democrazia ideale, sopravento
dei fantasmi, una tensione del silenzio
su strappi indecenti, la memoria
amorfa, e ferita su un buco bianco
nell’era più importante di è, crescendo
nell’ora malinconica sull’erba povera, sull’erba nuova
crescendo la verità dei noccioli, e delle rondini
nello stupore, crescendo spesso malvestita tra i dispersi
ancora viva tra le fontane, e le statue bagnate
No, la luce al confronto della recente oscurità
è un vuoto, nel roseto della giovinezza
ancora un termine del vuoto,
a proposito delle sue scarpe povere
lontane, capovolte nella polvere.
È ‘normale’ riascoltare nella scrittura della Or quella voce della Cvetaeva vincolata a un doppio legame: poesia sì, ma anche diario lirico; un sé essenzialmente presente ma anche oltrepassato; una fuga inseguita dalla vita.
Gregory Bateson svela il paradosso di questa voce poetica legata all’amore tra occhio e orecchio con l’immagine di una madre che abbraccia sua figlia ma a parole la respinge («non mi dici niente? Non sei contenta di vedermi?»).
Ed è nelle parole della piccola Ariadna, la figlia della Cvetaeva, che viene racchiuso il senso di questa poesia: «Mia madre non somiglia affatto a una madre». Quella bambina di sei anni, per essere amata dalla madre, doveva diventare poesia. Detto altrimenti, e in modo più ‘riservato’: per attirare l’amore di una poeta, ogni cosa deve farsi poesia. Ecco la verità che si alza tra timpano e pupilla grazie alla voce di Rossella Or. Il suo è «un linguaggio alto», come ha giustamente osservato il compianto Carlo Bordini nella postfazione a L’acqua tende alle rive, in cui viene descritta come «una pronipote del surrealismo che predilige però un tono classico». Da tale affascinante intreccio di tensioni opposte si sprigiona quel respiro «malinconico-drammatico» che non solo caratterizza, ma ne attraversa e sostiene la scrittura come un’eco costante.
AL PIANETA SGUARDO
(REQUIEM)
Nelle colline dei passeri nelle valli,
sono gelati i mandorli
comunque all’ombra dei giovani mandorli
per promettere una luce all’ombra,
per distrarre la morte con un golf di primavera,
per una voce alta, tra i rumori di fondo
per un pensiero più veloce di un’ombra
e al pensiero plurale, un respiro.
E dai nidi sui rami, uno sguardo strappato alle nuvole
e tra i rami non ricordo ma mai mi sembrava inverosimile
ho inciampato sui sassi in primavera
nell’erba raccolta sulle tempie dei tetti
ho inciampato in un intervallo senza luce
sola, alla parete immobile del mondo
solo un albero nel quadro di un anonimo paradiso
un albero anonimo al di là del vetro,
un canto in un’aurora nella polvere
l’invocazione del presente, alla parete vuota
nel femminile che con l a l t r o conversa
di questa tragedia parola al presente
nel quadro di tempere, e colori pochi
con le parole cantate nel vicolo cieco
di una camicia con le maniche tremanti,
dell’origine soffiata delle cantilene
del soffio dei consigli nel corridoio dell’opera t u
la parola soffocata nel tulle una parola recente.
E nell’ordine di quel ritorno alle fedi,
e nel sussurro dalle solitudini del padre tempo
alla figlia voce sulla terra sogno della madre
terra volontà al figlio del cielo sonno
e alla sorella lago, e dal mare
all’amico amore, dall’aria alla luna amante.
Alla sostanza infine di quei ritorni,
per ricordare improvvisamente di chiudere gli occhi
sulle tue palpebre chiuse, sulle tue labbra.
*
Fotografia © Kimmo Sahakangas
16/07/2025