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Fuoricampo

UNA “NUDITÀ CHE PARLA”.
RISCOPRENDO COSIMO ORTESTA

di Davide Toffoli

«Le opere, per quanto moderne si pretendano, sono sempre più inattuali dei tempi che le accolgono o le rigettano» (Pascal Guignard). È a partire da questa citazione che Vito Bonito – nel saggio introduttivo a Tutte le poesie, Argolibri, 2022 – avvia la propria riflessione sull’opera di Cosimo Ortesta, figura tra le più appartate del nostro panorama nazionale (secondo Andrea Cortellessa «Il poeta più puro e segreto, il più inevitabile del suo tempo»). A fronte di ciò, l’operazione svolta dalla casa editrice bolognese appare coraggiosa oltre che necessaria, offrendo finalmente l’opportunità di confrontarsi con l’intera produzione di un autore che ha sempre lavorato di cesello e per sottrazione.


Già da Il bagno degli occhi (1980) quella di Ortesta è «una lingua del sentire e del patire, della memoria e della materia», che opera sullo scarto e sui ‘fallimenti’ della parola. È canto sospeso di un impossibile ritorno, filo doloroso cui si lega una vocalità che passa di forma in forma, di ferita in ferita. Sin dagli esordi del 1975, la sua poesia si struttura come impulso bio-grafico, cerca di disseppellire le più atroci scorie psichiche. La grammatica è rotta in frammenti, la metrica è fatta di spasmi. «S’azzoppano sull’erba divertite» le parole chimere, pieghe, polpe, mosaici.


Ne La nera costanza (1985) questi temi vengono elaborati in maniera più attenta e la scrittura sembra assumere le sembianze di natura morta o addirittura esaminare fossili per cogliervi tracce di una storia personale. Tutto si svolge in un’anteriorità geologica dov’è persistente l’elemento freddo, che ora è neve, ora gelo, ora la sua stessa luce che filtra nei boschi.


Ortesta ha percorso le varie fasi della poesia italiana, dal ‘decentramento dell’io’ degli anni ’70 alla ‘nuova progettualità’ del decennio successivo, fino ad arrivare agli impulsi prosastici e teatrali dei ’90. Centralissima, poi, l’esperienza di traduttore (Mallarmé, Rimbaud, Baudelaire, Char, Balzac, Cossé, Bruckner) come del resto quella di critico (Campana su tutti – «chi scrive agisce per esprimere la scissione in atto dell’io e il desiderio dell’identità perduta» –, ma anche il barocco Giacomo Lubrano).

Nei suoi versi si sfiora l’allucinazione, con un continuo slittamento del punto di vista, dove lo spazio (e l’occhio che lo attraversa) diventa spesso motore dello sviluppo lirico-argomentativo, mentre il tempo oscilla tra la consequenzialità logica e bruschi strappi per infine schiacciarsi su un presente onirico, visionario, popolato di fantasmi.


Nel progetto di un freddo perenne (1989) ci si ritrova privi di ogni orientamento, collocati in una temporalità vieppiù esitante nella quale l’io poetico si palesa semmai (forse con un richiamo al mito di Narciso o alla conoscenza descritta da san Paolo, «per speculum in ænigmate») «in un cerchio di specchi opachi». Il ritmo è però più narrativo, e l’opera si dispone come un «poema di amore e dolore, di ‘strage’ e tenerezza» (Giovanni Giudici) i cui protagonisti sono senza volto e senza corpo, voci provenienti da un altrove misterioso.

Ortesta «riesce a contaminare l’ellittica percussività di Mallarmé e Rimbaud con una linea metafisica e deformante, tra ironia e pietà» (Bonito) e difatti, in gran parte della sua produzione in versi, persiste il fantasma di Beckett, con cromatismi freddi o quantomeno ben polarizzati sul bianco e sul nero.

È un preludio importante alla centralità della morte delle successive raccolte: non più una pulsione irresistibile della materia che siamo, ma l’orizzonte stesso che dona consistenza all’individuo, permettendogli (sulla scia di Freud e di Heidegger) di situarsi nello spazio e nel tempo.


Serraglio primaverile (1999) – rilettura della Camera da letto di Attilio Bertolucci – rappresenta una sorta di distensione lirica, quasi la primavera venisse ad essere misura interiore dello sguardo. La parola è ora una «luce bianchissima tesa nel cuore della notte», e la voce, seppur nell’ombra, pare farsi più aperta, come «di bambino / che assiste al suo stupore» (l’infanzia, questa «nudità che parla»). Siamo dinanzi a una vera e propria «drammaturgia della distanza» che ricorda certi notturni leopardiani dove lo spazio resta intransitabile e non c’è risposta. Scrive Jacopo Gallavotti: «la poesia di Ortesta si sviluppa come ossessivo rivolgimento intorno a una memoria traumatica, un nucleo bruciante di non detto».


La passione della biografia (2006) chiude quindi un trentennio di scrittura sotto il segno del rinunciare, del sottrarre, del «farne a meno». Nello specchiarsi, denudato di ogni possibile redenzione, il poeta accetta la scarnificazione della parola, il suo abisso. Se l’unico io dicibile agonizza, la poesia entra nel solco heideggeriano dell’essere-per-la-morte, si fa ‘esorcismo della morte’. Non si riscatta, non può farlo. È lesione, nero intervallo tra mente e ventre, lingua omicida fatta di parole «ricantate». Cortellessa, non a caso, parla di «interiorizzazione quasi medianica con la mediazione della parola altrui» che attinge a piani più segreti del sé.

La poesia è «soprattutto un’urgenza etica» – come afferma Giacomo Morabito nell’altro pregevole saggio contenuto in Tutte le poesie – ma si posiziona esattamente sull’orlo del baratro, nel quale getta il proprio sguardo senza però sprofondarvi. I suoi testi sono sempre frutto di una ricerca complessa, il più della volte cagionata da uno choc percettivo, e la nota d’autore dell’edizione del 2006 (Donzelli) de La passione della biografia ce lo conferma: «la poesia coincide con il tentativo di imporre, attraverso un lavoro poetico che è insieme ascolto, osservazione, memoria e volontà, una forma a quelle zone della vita di tutti rese almeno in parte refrattarie alla conoscenza attraverso la lingua della loro materia opaca e urticante».



LA NERA COSTANZA


Ma a ciascuno secondo un diverso

capo d’imputazione

– negletto amore o superba castità –

mancò di luce la nera costanza del clima.


Lichene o moscardino si fece il pane

scivolato loro dalle dita

e vita nel bosco immaginato

d’alto fusto, lungo i rami,

tra gli ombrelli fermi e densi

di carne si orlava

sopra fossa scurita.



***


Nel progetto di un freddo perenne

lenimento si sveglia inerme

a severa distanza un lamento all’orecchio.

Tra le crepe del suo stesso odore

ancora cresce illusione non desiderata

dentro un cerchio antico di due forme una forma

che accresciuta non grida non vuole

venire fuori

lì per un accesso di dolore

inosservata chiedendo più attenzione

a eccesso di colore



***


Trasfòrmati in parole:

senza più compagnia di fiati e di viole

facendo posto alla tua vita

la mia più niente ha a che fare

con gli anni

se correndo intorno a un solo nome

è sempre di me e di te che si tratta

e sempre le stesse armi

potenti di lutto e afflizione

che pure nei sogni a rovina

inseguono la mia levigatezza.

Ti vedo sui tuoi passi tornare ancora

più sottili le braccia già esitanti le gambe

nel tempo lentissimo della paura.



***


In un campo di fiori

si stende a riposare la bestia ferita

piegate le zampe sotto il ventre

non ha compagni

beve da una pozza

anche la sua ombra beve

nella sfera del bosco


Non è la voce di un bambino

da quanto tempo ride o si lamenta

non lo sa nessuno

questa è una voce di bambino

che assiste al suo stupore



***


Tornarono durante la notte

la stanza si riempì di fumo

e fuori ancora brillò

una piccola luce.

Ansimanti incappucciati

saltarono dentro

tutt’intorno sul prato sulle colline

la neve cresceva e cresceva

un odore di incenso nella stanza

non cancellò la carcassa della belva

che adesso si nutre si scalda.



***


In trono e in penombra

con la testa illuminata da uno sfregio di luce

ordina che al prigioniero siano mozzati

i piedi, la bocca frantumata.


Lo specchio è appoggiato alla siepe

e un lampo di spavento gli dice

che questo è il mondo dei giochi

il mondo da cui lui proviene

con tutti i suoi animali.

Ma solo una cosa continuamente

chiede: i compagni perduti.



***


Poi si pungolava lentamente dentro il sogno

tappandosi le orecchie gli occhi

fuori da tutto quello schianto

e sprofondava soltanto nell’occhio appassionato

senza altra lesione continuando

il rimescolìo tra sé e il suo lato della notte



***


Vive alle sue spalle e trema

immagine non persona

perfetta obbediente

ignora i più semplici crudeli affetti

per ricordare solo pensieri

nemmeno un volto nemmeno l’erba

che dopo il terrore ingenuamente

s’apre ogni volta a rigogliosa rovina.


La sua esistenza senza forma

non dà riparo non acquieta sospiri

non è rifugio agli uccelli per sempre scacciati

da boschi superbi.

Così innalza nuovi patiboli

se appena lo sguardo

lontano spinge all’orizzonte.



*

Immagine di copertina: Roni Horn, Untitled (“One can recognize…”), 2014-2017


19/07/2022

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