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Fuoricampo

SU “LA TERRA DI FERRO”
DI PASQUALE PINTO

di Alfonso Guida

Pinto è un poeta del Sud, un poeta che pesa sulle spalle. Sua la storia di una geografia dell’araldo nero, senza riscatto. Nonostante i suoi sforzi di formica gigante, i suoi sforzi mostruosi di creatura rimasta con un piede nell’inerzia di una mitologia destinale o di un destino mitologico, non sembra abbia vinto la sua battaglia con la Storia, quella Storia di montaliana memoria che «non è poi / la devastante ruspa che si dice. / Lascia sottopassaggi, cripte, buche / e nascondigli. C’è chi sopravvive». Quanto ora per un uomo è possibile sopravvivere qui, in un Sud travolto dalla corrente, un Sud preso di spalle, sempre più solo e più irriconoscibile?


Dal repertorio, marino e polveroso, di una Magna Grecia monumentale e gloriosa alle generazioni agricole e pastorali di un’arcadia che arcadia fino in fondo non era, un mondo contadino violentato e violento, proscritto e orfano, genuino e deturpato sempre più dall’acido corrosivo dell’alienazione, di un fenomeno mondiale, di natura esteriore ed interiore, consistente in autismo geografico e mutismo storico. Scotellaro, Sinisgalli, Michele Parrella, in Lucania; Vittore Fiore, Raffaele Carrieri, Vittorio Bodini, in Puglia. Alonso e i visionari, direbbe Anna Maria Ortese. Una generazione di poeti in cui l’esasperato senso della realtà doveva necessariamente sortire l’effetto opposto a quello che scaturisce da una condizione di estrema o totale coercizione: la nascita della visione.


La verità è paradosso, contraddizione, inverosimiglianza. L’infinito si raggiunge nelle celle. L’immaginazione mette radici in un buco.  Questo angiporto interiorizzato del mondo, il Sud dei Sud, è il luogo abissale, l’abisso inferocito, in cui i suoi abitanti sono riusciti a tracciarsi una via di fuga, di salvezza, sia pur illusoria: la confidenzialità con la realtà simbolica, con la capacità figurativa delle azioni inconsce represse dall’esterno, da un esterno seviziatore e sempre minaccioso. Come sembra dire Pinto, il Sud si rintana nella sua cella di sterco e di cemento, invasa da gas venefici, per aprirsi le vene ed è proprio attraverso il gesto salvifico di aprirsi le vene che per un po’ dimentica la tirannide della nube velenosa di Chernobyl che grava, come la nube tossica di Seveso, sull’Ilva di Taranto, sugli impianti siderurgici dell’Italsider, dove Pinto per tutta la giovinezza, dai 24 ai 50 anni, lavorò, intessendosi di tutto quel mondo di ricordi, nostalgie, amarezze,  di costante assenza di futuro e progetti, che caratterizza la rassegnazione caustica e corrosiva all’Aracne capitalistica, tra una morte violenta o bianca e un respiro epico, corale, comunitario.


Pasquale Pinto dipinge versi di un pittoresco andaluso su notturni metropolitani, presagiti come il giallo di una notte di sangue in cui tutto è inesorabilmente inghiottito dalle fauci di una terra divenuta sterpaglia o terra desolata, nuvola di fumo tra i cui margini galleggia un surreale, metafisico paesaggio di ciminiere, carroponti, carrelli, barili, bidoni, fusti, gru, benne, piattaforme, sacchi di pece e di carbone, di coke e silicio, l’abnorme presenza di silicio nell’aria tarantina, così abnorme da rendere silicei persino gli alberi. Alberi come pilastri. Legno come ferro. Nodi come bulloni.  Un pilastro è la Croce nel quadro di Otto Dix. Alberi neri. Gli olmi di Celan sono olmi neri.


La lingua di Pasquale Pinto attinge alle radici millenarie di una poesia dall’immaginario scintillante, dionisiaco, oscuro e luminoso, al tempo stesso, mediterraneo e lunare, aristocratico e patetico, popolare e apocalittico, un flusso pullulante di immagini lorchiane e accostamenti analogici anche piuttosto arditi, nella misura in cui può essere ardita la tensione di un viluppo psichico, squisitamente surrealista e fiabesco. Dove c’è immagine, c’è strada per una fiaba. Ma nel poemetto La terra di ferro (1992) una più avvertita esigenza di realismo dissipa tutto il surplus icastico- metaforico delle prime raccolte e si sposta verso uno stilema più crudo e graffiante, un idioma più voraginoso e netto, irto di staffilate patetiche, vibranti, disperate, come la realtà di Taranto sepolta dai gas. L’Ilva, di notte, brucia, come una cittadella infiammata e sulfurea a mezz’aria. Sembra Sodoma sotto l’occhio incollerito di Dio.


Questo pressante e decisivo bisogno della lingua di Pinto di essere fedele a ciò di cui si farà simbolo, questa urgenza della parola di portarsi nel cuore la realtà, questo atto materno d’amore da parte della poesia di convogliare sui propri binari la condizione umana di un poeta e della sua vita, che è la vita di tutti e dell’intera Italsider, questa comunione tra la voce poetante e la tragedia poetata, questo vertice che nel poemetto finale viene toccato, con ruvida e ferma compostezza,  con grande nobiltà e fierezza, commuove perché si tratta di una ferita testimoniata con uno stile che a stento trattiene la brutalità cronachistica dei fatti e che in sé porta il segno di un movimento di prossimità alla luce del martirio e, dunque, al sacro, umanamente adempiuto.



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Immagine di copertina: Anselm Kiefer, Angeli caduti, 2024


29/02/2024

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