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Fuoricampo
LEOPARDI
E LO “ZIBALDONE
DI PENSIERI”
Cos’è lo Zibaldone di pensieri di Giacomo Leopardi? Dovrebbero saperlo tutti coloro che si occupano, a vario titolo, di letteratura e poesia italiane. È un diluvio di annotazioni, prove di sistema, analisi e tentativi di comprensione della realtà e delle cose. Un sistema non sistematico ma dialettico dove la spiegazione dei più vari eventi, costumi, critiche (anche quelle sulla poesia e sulla storia delle belle lettere dall’antichità ai moderni), delucidazioni vengono trattate alla luce del dubbio e dello scetticismo materialistico. Di cosa si parla nello Zibaldone? Sarebbe inutile fare un elenco: al suo interno si parla di tutto. Lo stesso Leopardi, nel 1827, quando per tre quarti l’opera era conclusa, tenta di fare una sorta di sistemazione alfabetica dei temi affrontati, memore di quel sapere enciclopedico che proveniva dalla Francia e che ammirava e conosceva a menadito. Ma il suo Zibaldone era andato oltre le sue stesse aspettative, e il tentativo di riordino alfabetico naufragò. L’esperimento successivo prevedeva un’ambiziosa trasformazione del flusso di pensieri in una serie di saggi o trattati, che doveva, nelle intenzioni dell’aedo recanatese (che si reputava filosofo almeno quanto poeta, se non di più), coprire tutto la spazio concettuale di un sistema di sapere completo, dall’ontologia alla scienza, all’economia, la morale, la Storia. Anche questo tentativo finirà per fallire, le forze di Leopardi, sebbene titaniche, erano, come dire, sempre un po’ frenate quando si trattasse di prosa pura e non di una forma leggiadra come le Operette morali. Leopardi – ad esempio – tentò per buona parte della vita di mettere mano a un’autobiografia. Ma gli eventi secchi e scarni non gli interessavano: con le sue liriche immortali partiva da uno spunto autobiografico per parlare di e a tutti gli uomini. Inoltre, molta della sua vita è nell’epistolario, altra opera che drenò energie ‘autobiografiche’ al suo disegno di un’autobiografia. Sono, quindi, molti i progetti letterari che restano in nuce nello Zibaldone. E ciò lo rende, se possibile, ancora più interessante. Per questo l’antologia zibaldoniana proposta da Taut Editori e curata da Stelvio Di Spigno, dal titolo Contraddizioni, ci sembra degna di una segnalazione e una lettura attenta. Di Spigno offre una lettura ‘laterale’ dell’opera leopardiana. Alle voci famose come Natura, Amore, Ragione, Civiltà, che vengono affrontate (spesso in modo insipiente) persino nei manuali scolastici, il curatore offre voci meno conosciute che non fanno che ribadire e confermare la metodologia critica e filologica con la quale Leopardi affronta concetti e proposizioni, da vero filosofo, da uomo e pensatore che sa che se Cartesio affermava di esistere perché essere pensante, la versione dell’uomo di ogni epoca è soffro, dunque esisto. Da questa consapevolezza nasce quel sentire leopardiano lo ha reso uno dei più grandi precursori della nostra ipermodernità letteraria, filosofica, scientifica. Un precursore ancora attuale, vivo, pregno di significato per il presente e per l’avvenire.
La Redazione
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È cosa evidente e osservata tuttogiorno, che gli uomini di maggior talento, sono i più difficili a risolversi tanto al credere quanto all’operare; i più incerti, i più barcollanti e temporeggianti, i più tormentati da quell’eccessiva pena dell’irresoluzione; i più inclinati e soliti a lasciar le cose come stanno; i più tardi, restii, difficili a mutar nulla del presente, malgrado l’utilità o necessità conosciuta. E quanto è maggiore l’abito di riflettere e la profondità dell’indole, tanto è maggiore la difficoltà e l’angustia di risolvere.
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Ho detto altrove che il troppo spesse volte è padre del nulla. Osserviamolo ora nel genio e nelle facoltà della mente. Certi ingegni straordinarissimi che la natura alcune volte ha prodotti quasi per miracolo sono stati, o del tutto o quasi, inutili, appunto a cagione della soverchia forza o del loro intelletto o della loro immaginazione, che finiva nel non potersi risolvere in nulla, né dare alcun frutto determinato.
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La semplicità è quasi sempre bellezza, sia nelle arti, sia nello stile, sia nel portamento, negli abiti ec. ec. ec. Il buon gusto ama sempre il semplice. Dunque la semplicità è assolutamente e astrattamente bella e buona? Così si conclude. Ma non è vero. Perché dunque suol esser bella? La semplicità è bella, perché spessissimo non è altro che naturalezza; cioè si chiama semplice una cosa, non perch’ella sia astrattamente e per sé medesima semplice, ma solo perché è naturale, non affettata, non artifiziata, semplice in quanto agli uomini, non a sé stessa e alla natura. Per queste e non per altre ragioni la semplicità forma parte essenziale e carattere del buon gusto, e sebbene gli uomini se ne possono allontanare, certo però vi tornano, cioè tornano alla natura, la quale nelle cose essenziali è immutabile.
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Immagine di copertina: biblioteca di Casa Leopardi
01/12/2023