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Fuoricampo
LE REGOLE DEL GIOCO
SECONDO PAUL MULDOON
di Domenico Iannaco
Paul Muldoon nasce nel 1951 a Portdown, nella Contea di Armagh, in una famiglia cattolica, nell’Irlanda del Nord contesa fra i cattolici stessi e i protestanti. Fin da giovanissimo entra in contatto con Seamus Heaney, che intuisce subito il talento del ragazzo e rimane colpito dall’eccentricità, specie formale, che caratterizzerà sempre la scrittura di Muldoon.
Nel 1986 lascia l’Irlanda per trasferirsi negli Stati Uniti, dove diventa docente a Princeton. Tra i numerosi riconoscimenti ottenuti nel corso della sua carriera, spiccano il Premio Eliot nel 1994 per The Annals of Chile e il Premio Pulitzer per la Poesia nel 2003 con Moy Sand and Gravel, tradotto in italiano da Giovanni Pillonca per Guanda con il titolo Sabbia (2009), qui preso come testo di riferimento.
Il poeta mostra presto di meritare il riconoscimento di Heaney: la sua poesia si presenta come un grande corpo linguistico, che non si lascia rinchiudere in singoli componimenti e che si muove con naturalezza entro contesti lirici differenti. Tra allusioni, intertestualità, rifacimenti, improvvisazioni, giocosità e ritmo, Muldoon costruisce un organismo vivo e complesso, che si arricchisce progressivamente di nuove composizioni. È come trovarsi di fronte allo sviluppo di un grande evento linguistico, un’unica modernissima cattedrale. La sua è una poetica in atto, che mostra scarso interesse per postulati filosofici o teorie sottostanti, e segna così uno stacco generazionale netto rispetto alla tradizione.
Muldoon mostra un forte interesse per la realtà e non perderà mai la sua matrice d’origine, quel legame con l’Irlanda che costituisce la base di molte esperienze poetiche, da Heaney a Yeats, per non parlare di Joyce. La sua voce, tuttavia, si distingue per un piglio ironico e per l’aperta appartenenza a una cultura pop, in particolare a quella parte più raffinata e ‘aristocratica’ della cultura e della musica di massa. Non fa nulla per celare ciò che gli piace: al contrario, lo integra con naturalezza nella sua scrittura poetica.
L’autore vive una fase culturale che, a partire dagli anni Settanta e Ottanta, vede – grazie alla tecnologia – epoche ed eventi accadere quasi simultaneamente. Con un semplice computer sarà presto possibile immergersi in qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo. La poesia, inoltre, non è più percepita come momento condiviso d’avanguardia: è la musica rock, con tutto ciò che la circonda, a diventare punto di riferimento per intere generazioni. Muldoon appare così come un cantastorie potenziato dalla tecnologia, un erede postmoderno della poesia trobadorica di Arnaut Daniel e Guglielmo d’Orange. La sua versatilità stilistica, il ritmo quasi jazzistico della scrittura, lo rendono un affabulatore coltissimo, un inventore di nomi e quasi di leggende, dove l’intertestualità agisce come un sapere diffuso, simile a una nuova mitologia.
Qui si riscontra il suo legame con l’Irlanda, un paese che ha affidato gran parte della propria identità alla ricostruzione del folklore, alla bellezza delle sue storie e al fluire di racconti che si intrecciano in saghe senza fine. Con Arnaut Daniel, Muldoon condivide la propensione a essere un ‘poeta difficile’, pieno di ironia e di quella forza innata che scaturisce dalla corporeità con cui vive l’esistenza e la parola poetica.
La sua condizione di migrante, proveniente da una nazione che ha sempre difeso la propria identità soprattutto dagli attacchi della vicina Inghilterra, lo porta ad assumere uno sguardo sornione, capace di riconoscere immediatamente oppressi e oppressori nei fatti storici, senza tuttavia scivolare in un atteggiamento da stato d’assedio.
I suoi temi sono molteplici e riflettono un’epoca che ha ormai abbandonato numerosi schemi di comportamento, pregiudizi e valori consolidati. Il poeta entra nel fatto ma non ne fa una metafisica: il suo è uno sguardo progressista, moderno, così come moderna è la sua poesia.
I testi di Muldoon sembrano legati alla musica, ed è inutile dire che il poeta è anche musicista. Specie nei testi più lunghi si ha l’impressione di essere avviluppati da una tecnica di improvvisazione musicale, che rende i versi sempre imprevedibili e nuovi, ma allo stesso tempo congiunti intrinsecamente ai riferimenti culturali già richiamati. Alla base c’è una logica ludica, che però non si riduce mai a un semplice gioco. Non ci si trova mai di fronte a un poeta che abbia fatto della tecnica la propria vocazione; se di vocazione si può parlare, essa va intesa come manipolazione del linguaggio. Forse uno dei momenti più importanti di questa esperienza è proprio Sabbia.
Il libro è dedicato alla madre, Brigid Regan: un modo per confrontarsi con un legame complesso come può esserlo qualsiasi rapporto madre-figlio, fatto di ambivalenze, con la rigidità della madre, figlia di un’Irlanda cattolica e repressiva.
Nella raccolta confluiscono molte delle tematiche muldooniane già descritte, ed emergono chiaramente quelle caratteristiche di stile di cui si è detto.
McNeice rappresenta un’altra fonte di ispirazione per Muldoon, soprattutto per la pluralità, l’indeterminatezza, il fluire di sensazioni e discorso poetico.
Sabbia, che si apre con il riferimento alla madre e alla sua capacità di inibire, anche sessualmente, il figlio costretto a rispettare le regole sociali imposte, si chiude con All’insegna del Cavallo Nero, settembre 1999. Qui Muldoon crea un testo che riflette tutte le suggestioni stilistiche del resto dell’opera – una vera e propria cellula interpretativa: «… esposta alla pioggia, uno delle migliaia di schmuck irlandesi che ancora ciondolano ancora ciondolano e girellano / tra la ridicola pista da traino e l’altrettanto ridicola berma» (p. 175).
Muldoon ha sposato la scrittrice di origini ebraiche Jean Korelitz e i due hanno avuto due figli: Dorothy e Asher. Asher compare in questo pezzo, che rappresenta anche la presa di coscienza delle origini dei figli: eredi, per parte di madre, di un popolo sempre perseguitato fino all’Olocausto e, per parte di padre, di gente che ha dovuto abbandonare l’Irlanda per lavorare nella costruzione di un nuovo paese, nonché carne da cannone in molte delle sue guerre. Già prima era comparso lo schlemiel irlandese (due popoli accumulati anche dalla fantasia?). Muldoon sa di essere un funambolo, un artista della parola che dialoga sempre con la realtà; il termine trickster, usato per descriverlo, rende perfettamente giustizia alla maggior parte dei suoi atteggiamenti linguistici.
La sua parabola continua dopo quest’opera, trovando nuove fonti di ispirazione. Tra l’altro, l’epidemia di Covid e l’amministrazione Trump dimostrano che la storia non è mai avara di sorprese. Il poeta si nutre dei fatti, piccoli e grandi, di tutti i giorni e in questo modo diventa anche una fonte, un cronista di eventi che hanno ripercussioni istantanee sulla vita di genti lontane. Forse si tratta sempre di un adattamento alle circostanze tipico del compito di un buon cantastorie, la cui tecnica linguistica è costantemente alimentata da paradossi epocali. Muldoon fa compagnia come un buon disco, approfondendo emozioni ed esperienze di chi affronta i paradossi del mondo.
SABBIA E GHIAIA DI MOY
Uscendo dal cinema Olympic si restava colpiti
da come, nel tempo impiegato dal carrello
a coprire il breve tratto di binari
fino al punto in cui i visi dei due divi
s’univano schioccanti in un bacio
che conteneva l’ampiezza dello schermo,
quelle due grandi torri dirimpetto
del Moy Sand and Gravel avessero già lavato
una volta almeno, quando era passato
o era stato dragato dal letto del Blackwater
e ancora lo lavassero, carico su carico,
come se lavandolo potessero purgarlo.
BRACCHETTI
Quella mattina di Santo Stefano, sentivo lontani i familiari gridi e gemiti
sopra Keenaghan e Aughanlig
di una muta di bracchi, vecchi cani restii ad inseguire un’auto, all’improvviso trasfigurati
in cuccioli lanciati all’arrembaggio
per i campi con tutta l’impudenza di veterani
delle trincee, i grigi ardesia, i color cannella, fegato, limone, ruggine e violetto
che scartavano e svoltavano, invisibili, attraverso i campi,
i loro gridi e gemiti che scartavano e svoltavano dietro gli scarti e le svolte
della grande lepre che era appena piombata nell’aia in cui stavo in punta di piedi
sulla mia Raleigh nuova,
con un contegno un po’ laido, un po’ apatico
viste le circostanze, visto che si drizzava
come a mimarmi, alta quanto me quasi, quasi volesse per un momento prendere
il mio posto, ripensandoci poi, e dileguandosi dietro il cassone del camion.
UN’ULTIMA TIRATA DI PIPA
La notte scorsa mi hanno raccontato di una tradizione popolare della contea di Roscommon. In un villaggio, si mettono delle pipe cariche di tabacco sulle tombe dei defunti il giorno della sepoltura in caso venisse loro voglia di fumare. Mi pare un’usanza da indiani selvaggi.
Da una lettera di W. B. Yeats a Douglas Hyde (ottobre 1889)
Anche se accaduto alla fine dei lontani anni Cinquanta potrei ancora oggi tratteggiare
uno schizzo del posto. Con una piccola barra
aiutavamo un vicino a ritirare
del fieno fresco quando d’improvviso giungemmo a tiro
di una fossa appena scavata. Lui doveva essere stato preso tra l’ultima tirata
della pipa e il frettoloso tentativo di stirare
un velo di cannucce e rami di pino sulla fossa prima di doversi ritirare,
quel fantasma che potrebbe ora tentare di mettermi a tiro.
Il giorno in cui Toro Seduto fu ucciso, il suo vecchio pony acrobata che una volta attirava
tanta gente nel circo di Buffalo Bill (dato che si metteva a tirare
la volata
al sentire una salva di spari) automaticamente si tirò
diritto sollevando uno zoccolo.
Mi pare di sentirlo ricadere. Lo sento ricadere sulle travi di tasso del tetto.
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I testi sono tratti da Paul Muldoon, Sabbie, trad. it. di G. Pillonca, Guanda 2009
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Fotografia © Joel Meyerowitz
06/11/2025


