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Fuoricampo

LA POESIA DELLO STUPORE
DI ALBERTO BEVILACQUA

di Alessandro Moscè

In Alberto Bevilacqua (Parma 1934 – Roma 2013) c’è sempre stata la sensazione di una piena maturità poetica, arcana e compatta, verificabile, per lo più, nell’Oscar Mondadori Le Poesie uscito nel 2007.

Andiamo con ordine. I versi esordiali della raccolta L’amicizia perduta (Sciascia, Caltanissetta-Roma 1961) consentirono ad Attilio Bertolucci di parlare, per la prima volta, di ‘na­tura shelleyana’ di un poeta ancora fanciullo, immune da manierismi moderni. I luoghi poetici di Bevilacqua sono attraversati in una specie di sortilegio struggente che si ferma nella gente, nelle cose, in una complessità disegnata nell’atmosfera schiusa, pian piano, in una visione. Già dai primi versi denotava una forza di libe­razione che trascinava il destino nel canto: il fiume Po sembrava il grande comunicatore tra gli uomini. C’è un destino terribile, dell’umanità intera, sfidato con coraggio, con trepidazione.


     Parma, di tiepidi insetti

     contro il parabrezza, e ne scopro

     la vita nel mentre ch’è già morte,

     piccole macchie di bellezza

     di rossi e viola,

     sangue per pura distrazione.

     Un giorno ne saremo

     il già ravvisato specchio:

     l’effimero stupore

     di qualche dio in cui sbatteremo per caso.


Parma è al centro della silloge pubblicata dall’allora trentenne che vedeva nella sua città natale la risonanza di un pensiero scolpito. Il credo padano non è mai sconfessato, anzi viene rafforzato nello stupore. La terra di papaveri e grano (come venne scritto a Pasolini in una celebre missiva), promiscua di violentate vite, è un crepuscolo, un grido da capire nel mattino del mondo. Il riferimento è all’Oltretorrente che divide la città parmigiana. A ovest il quartiere povero e proletario per tradizione, è stato la terra dei barricadieri e dei geni artistici. Un libro viscerale L’amicizia perduta, che congiunge il Bevilacqua poeta al Bevilacqua narratore. Come disse Leonardo Sciascia, l’affe­zione lega lo scrittore al luogo nel senso di quel che mostra e rivela. Lo è stato per i romanzi e lo è per la poesia di matrice confessionale.

Voci e tempi svelano la grazia di un adagio e la succosità degli incontri in una piccola capitale come Parma: «M’inoltro / con un’eco di passi / smarriti in tardiva invasione / nel vecchio labirinto abbandonato».

Scenari di stagioni si fanno strada nella musicalità del verso e in un’innocenza inviolabile: «Mia vita, tutta esilio / e folla di rondini, / esilio lieve di climi / dove resiste / un colore nella nebbia»; o: «I miei tramonti sono sempre estremi / precocissime le mie albe, / il giorno un dubbio».

Il tempo emiliano sospinge Bevilacqua a difendere la dignità dell’e­sistere in affermazioni che non sono mai identificate come certe, ma aleatorie. I meandri del sogno si allargano, arrivano alla meraviglia per rendere la vita desiderabile, nonostante tutto.

La meditazione porta alla rinascita sollecitando i gesti come il rito d’autunno del maiale còrato; il mangiare i cibi tipici dell’Emilia (gli anolini, il culatello, la grana); il bere la malvasia o il nocino fatto in casa. Quindi il camminare nella campagna attraversata tra sambuchi e viburni, alzando gli occhi al cielo per vedere gli «uccelli di passo». Il segnale della vicinanza affettuosa è una sorta di risanamento, di riparazione: il «contorno dell’anima». Viene ideato il fantasma della morte in un estremo sentire di fisionomie e somiglianze (come per Saba, Sereni, Caproni, Raboni). La riabilitazione dei defunti si fa fiera opposizione all’horror vacui, ad una paura ancestrale. Siamo nel campo della comprensione che avvenne nel ricongiungimento immaginifico dopo la perdita della madre. Ma dal luogo dell’infanzia nacque la stessa vitalità dell’esistenza. Era la nonna di Bevilacqua che conduceva il bambino nell’arcano delle tradizioni popolari, convinta di afferrare, oltre che la gatta sottobraccio, quel qualcosa che arrivava dall’aldilà e si materializzava nel marito morto, in un dialogo medianico. Una provocazione, nel ricordo, che supererà qualsiasi altro tentativo di rianimare, dall’astenia, l’uomo in crisi.


Saltando di decennio in decennio, possiamo facilmente riallacciarci alle opere giovanili. Dai versi di Tu che ascolti (Einaudi, Torino 2005): «ascoltandoti anch’io / a volte avverto un tuo malumore d’eterno, / non cambia niente in ogni vita, / mi dici, / in ogni dimensione: / tutto / l’universo è paese / … fra una stella / che tanto aduna d’amori nella notte serena / e l’occhio del cieco / che ne culla l’assenza». Il poeta abbraccia la madre: l’uomo, dopo la morte del genitore, rimane per giorni immobile nella poltrona con la testa abbandonata dove la testa di lei aveva lasciato una piccola fossa. Le braccia non hanno più forza, le gambe sono molli, il cuore martellante. Alberto Bevilacqua pensa al piccolo motoscafo regalatagli quando era bambino. Il dialogo filiale nelle ultime poesie di Tu che mi ascolti ha un effetto ricostituente: «mentre aspetto / che torni ad ascoltarmi, la voglio / più allegra possibile la casa: ho appeso / intorno al tuo letto / i tuoi poster di tanghéra, ho dato aria / ai tuoi vestiti, ordine / alle pagine disperse del tuo diario, / ho portato persino / dal restauratore la tua poltrona fantasia».


Dalla raccolta Piccole questioni di eternità (Einaudi, Torino 2002), opera riassuntiva che contiene alcune poesie del passato in parte rivisitate: «I treni che segnano le ore / all’abbaglio di questo meriggio quieto, / i treni lunghi alla luce straniera / sospesa come pioggia…». I treni, simbolicamente, mutano, vanno lontano, trascinano con sé gli anni, un’avventura, un’anima. Quell’anima che per Alberto Bevilacqua è sempre nei paraggi, che percepisce il mondo, che scruta, che separa l’ansietà del giorno, che protegge dal malessere esistenziale: «La bellezza non è del creato / ma di chi ne muta l’incanto // Gli anni non trascorsero per noi, / fummo noi i loro inverni e primavere / noi stratagemmi del loro terrore / di raggiungere infine l’infinito».

Bevilacqua dice di voler essere lasciato ad una «disincantata montagna». È questa una fantasia circoscrivibile all’ambiente padano e parmense in particolare, in quel limite del sogno dove la luce è la stessa della cosa sognata, uno «splendore di vetri smerigliati» («Parma / dalle albe appartate nei quartieri / per quanto m’ero illuso / di bruciarne il rimpianto mi guardava / con un dolore agli occhi / di ragazza invecchiata…»). Si sogna una Parma che diventa «fiato di nebbie», una città lontana, desolata, una luna pallida che disarma le vie («Parma, la sera / gonfia la gola / del passero. Ci vado / scoprendo / di me ogni cosa / da altri vissuta»). Vengono ricordati i misteri della terra-acqua: le storie, in Emilia, nascevano da un’arte sottile che poneva la realtà in risalto servendosi di lati insoliti. Nella provincia il sorriso degli amici contrastava la solitudine, la malinconia di quando si restava a casa da soli.


Tornando agli anni giovanili, L’indignazione (Rizzoli, Milano 1973) si presenta come una rac­colta di testi che fuoriesce dalla linea del radicamento nel par­mense, perché, come scrisse Giorgio Caproni, si insinuò nella radice di quella mala pianta del sopruso dei potenti contro il diritto alla vita degli indifesi. Quella volta Bevilacqua guardava al mondo travalicando la propria immaginazione a difesa della fatalità che prendeva corpo dal male della cronaca, dalla degenerazione. La storia è sdegno, la con­dizione comune delle colpe e dei rancori, la tragicità nei ritmi sinco­pati di un’epica scomposta. Si fa riferimento più volte alle lotte civili.

La poesia Litania alle porte di Leopoldville nacque da uno dei viaggi giornalistici dell’autore come inviato di guerra: «Anima, gomma bucata / sulla strada dei colerosi di Leo. / Anima, mormorio / che non mormora niente, / fuoco sulle piaghe». Anche i versi di Abidjan, 1962 sono sullo stesso tema della guerra: «II mercatino dell’avorio / a una svolta / per orme di piedi scalzi / meravigliato / del suo stesso, inatteso incanto: / mai, per un istante, / fui tanto immortale». La notte algerina ha come sfondo la guerra d’Alge­ria agli inizi degli anni Sessanta: «Da poco s’è fatta / eterna qui la not­te, o Estremo / lume; il cerino / del tuareg illumina il piede / affinché non calpesti carogne».

Essere Papa è il più struggente testo contenuto nella raccolta L’indignazio­ne. Fu don Virgilio Levi, in occasione del settantacinquesimo compleanno di Paolo VI, a chiedere a Bevilacqua un poemetto da pubbli­care sull’Osservatore Romano:


     Più che ai sofferenti guardare agli insofferenti

     più che alla perfezione d’amore

     all’amore di perfezione annidato sul mirino

     delle armi: portare

     ferite senza più umano nome...


Nel 1975 uscì la raccolta La crudeltà (Garzanti, Milano). Bevilacqua rispose a Giovanni Testori che la misera crudeltà è insita nella vita, che saprebbe riproporre sempre lo stesso errore incorreggi­bile di nascere in una terra dolce ma terribile. Solo l’apparizione di un sentimento di tenerezza sembrerebbe poter salvare dall’inevitabile, come il rientro, simbolico, nel ventre materno.

La crudeltà è un libro di dediche e di episodi stigmatizzati. La riflessione coglie un presente che riporta a dichiarazioni d’amore. Poesia in ‘tempi brevi’ e in cui si realizza ­l’assunto dello scrittore: «Per me la poesia, oltre che imprescindibile, è la dotazione di mistero di cui dispongo, viscerale e paragonabile a una fascia stellare gremita di meteoriti, dove si accendono le continue e repentine linee di luce che sono rivelatrici del movimento di un cosmo» (II ragguaglio librario, 1969).

Il primo esempio è un passo significativo. «Per poi scoprirlo, questo Dio / miracolato proprio nella scarpa / feli­ce / di sé, come una pianticina / incollata alla suola». I luoghi padani si annullano per chiu­dere il poeta dentro la sua separazione: una parentesi per metaforiz­zare sé stesso: «Davvero s’è perduto / insieme il senso, / insieme d’o­gni cosa la ragione, / se dirci non sappiamo / chi di noi due sia il cane, / chi di noi due il padrone»; o: «Saremo, un giorno, lontani / se ciò che dicono è vero, / saremo un reciproco pensiero / o una cosa dimenticata / dalla nostra reciproca memoria: / io al mio inferno, tu al tuo paradiso». Ecco il momento rapido, l’incandescenza del vivere: «Mi sono accadute le cose di cui si tace e si muore / la mia eternità ho goduto di poche ore».

La dicotomia vita-morte è l’incontro-scontro più ricorrente, un riconoscimento che resiste. La sofferenza non è mai rinuncia, piutto­sto indicazione, disposizione transitoria per un’idea di superamento. Il rapporto con Dio è complesso. Dio viene nominato e lasciato ai margini. La discrezione è l’auto-pretesa di Alberto Bevilacqua, perché una supplica sarebbe il riconoscimento della compassione umana.


     Anche in questo s’imbatte

     per caso chi va

     né con gli uomini, né con Dio,

     ma come faccio io

     a naso dentro la vita:

     non meno straniera

     di lei, quando le grandini

     cessano di primavera,

     sta alla bellezza la carogna

     d’un passero: intendo

     un’anima con tutto a posto,

     vergogna compresa.

     Mistero vi risplende

     di vita arresa, d’artefice,

     ma è un filo a tradirla,

     il sottile castone della gemma:

     intorno alle ali

     del passero diventa nero,

     diventa un pensiero

     d’omissione carnefice.


Legame di sangue (Mondadori, Milano 2003) è un’altra raccolta il cui nucleo originario è nel senso dell’essere stato figlio e non padre. Il legame di sangue si scioglie come neve al sole e non avrà un ritorno («la fede di mio padre / è una goccia che cade ancora / nell’ora più fonda / sul vuoto estremo fra pulviscolo e stella»).

Il padre è il Mario dalla moto rossa che guidava i velivoli solcando il ciclo, impennandosi come i gabbiani. Mario il volatore che fu con Italo Balbo, un idealista che recuperò un «vuoto di storia» in quell’anelito di eroi­smo. Un uomo che rifiutava i compromessi, che diceva quello che pensava. Il ricordo di meditazione e di tenera sensibilità erompe in un tema civile. Il sorriso è un moto di saggezza popola­re che attinge al mondo degli argini, di quella terra abitata con «l’ani­ma bella».

Il padre sorridente, quando ha smesso di battere i cicli, ha conti­nuato a vivere la poesia del volo come una fede, raggiungendo l’aero­porto per andarsene a leggere nel frastuono degli aerei che atterravano, immedesimandosi in un comandante sempre sul punto di essere chia­mato per condurre un volo.

La disposizione poematica dei genitori costituisce un’appendice per Alberto Bevilacqua, la coralità familiare in una vicenda che abbraccia un secolo. Il padre è la coscienza di chi, con la morte, porta via un’espe­rienza irripetibile.

Non manca, anche in Legame di sangue, quel getto alto verso l’in­finito già tracciato in Piccole questioni d’eternità, in un’alfa dei sogni, come titola una poesia iniziale della raccolta, scritta proprio per l’an­niversario della morte del padre («c’è troppa luce, ora, / troppo signi­ficato nelle cose, / latente organo di percezione / nelle immagini assenti»). Il ritorno al mistero del cosmo, perfino a dichiarazioni di scienzia­ti (Albert Einstein), risveglia la coscienza della morte come inezia, quella coscienza che fa della parola un enigma, un traghetto per l’aldilà. Le molecole del corpo saranno riciclate alla nostra morte, resteranno nel­l’atmosfera, e se qualcuna di esse riuscirà a sfuggire all’attrazione gra­vitazionale, sarà eterna, come un’«idea anarchica».


Duetto per voce sola (Einaudi, Torino 2008) stravolge la sostanza della poesia lirica (come è riportato nella quarta di copertina). Non una poesia dell’io, ma una poesia di proiezioni, di personaggi rivissuti dall’interno in un’esperienza sensitiva. Ancora una volta i versi dell’immedesimazione, come recita il sottotitolo, in cui i riflessi del tempo comprendono affetti, situazioni storiche ed equilibri esistenziali difficili, momenti, propositi («– stare nel silenzio ed esserne / almeno un’eco, / se le folle camminano col cuore sospeso / tutto va camminando di punta / per non scivolare sul bagnato…»).

Bevilacqua enuclea sensi e controsensi, anni lunghi e brevi durate, ritmi di avventure, tracce di qualcuno e qualcosa, meccanismi del pensiero («è come piegare lo sdraio un po’ più indietro / consentire a una giacenza / di sonno screziata / dai battiti rallentati del polso, / di farsi essa sola creatura pensata…»).

Duetto per voce sola ascolta la storia e sembra spingere ancora ad una confessione, ad una tensione più alta, indefinibile. I vari nessi danno luogo ad un assolutismo lirico e ad un orizzonte verticale, a partire dal rapporto con l’universo, al quale vengono rivolti cenni d’intesa («parole di lontananza estrema / che vale / come per le labbra umane appena / il soffio di una parola / – annulla estensioni d’infinito tra corpi…»).

Il dialogo stellare è inventato tra «astri testimoni» di un accadere, così da riaccendere quella conoscenza cosmica cara al poeta. Sono convincenti locuzioni come: «il tardi che non esiste»; «la coltre friabile del mistero»; «la smania d’imperfezione»; «la nebulosa primordiale»; «la tentazione del disordine»; «lo zero della Storia»; «la prolissità del reale». E nel segno di una rinascita ultraterrena, il limite della soggettività si staglia nel dialogo più struggente e incommensurabile: «fa che ti segni, / un giorno, le tue ore / con le mie lancette ferme sull’eterno / … qui non cambia quasi nulla, e da te? ».

Torna il senza tempo di alcune poesie contenute nelle raccolte precedenti a Duetto per voce sola, come tornano gli addii a personaggi celebri conosciuti in vita: Antonio Ligabue, Paolo VI, Carlo Emilio Gadda, Luciano Pavarotti, Aldo Palazzeschi. Tornano, infine, i luoghi dell’amore, le piccole lussurie, i folli degli istituti psichiatrici («perché in realtà ci sembra diverso / ciò che vogliamo che sia, / mentre tutto è uguale a sé, / anche la gioia e il dolore, / uguale a qualcosa che ci vuole uguali»).


La camera segreta (Einaudi, Torino 2011) rivisita l’archivio privilegiato, un osservatorio terreno e cosmico. Il rito propiziatorio della domanda, anche implicita, al quale segue un’asserzione, affronta senza reticenza le contraddizioni umane, un valore sociale, i possibili equivoci tra il dire e il non dire. I frammenti della quotidianità si riassumono in un pensiero coerente, in un’unità d’intenti, mai in un’elusione. La totalità di questa domanda trova riscontro quando l’interrogativo è rivolto a sé stesso, quando c’è un recupero della soggettività e un infittirsi di espressioni. Si fa largo un controcanto, una musica singolare che si può ascoltare fuori dal frastuono dei nostri giorni, dalla civiltà delle immagini, dal pluralismo della notizia lampo. Si riscontra un blues che permette di ricostruire la funzionalità del tempo e la promessa di futuro nel milieu di giorni confusi. L’esigenza è quella di mutare i tempi. Si eleva una ripresa che parte dall’autonomia dell’arte contro forme di ideologia, di convenzione. Un valore di proposizione scopre la ‘realtà reale’ della poesia, perché la verità accade di per sé, senza subordinazione e passività. L’ideale non vuol dire una risposta già data, ma fornire il quadro di una ricerca. Nel tentativo, la poesia accompagna il mondo, ne è un segno. Non una corazza contro la realtà, ma una fede testimoniata.

La sezione Polifonie di voci amate a specchio della mia vita propone dediche a vari protagonisti novecenteschi, tra i quali Max Ernst, Robert Morris, André Breton, Aldo Palazzeschi, Cesare Zavattini.

Sono molti i rimbalzi efficaci nel dialogo tra vivi e morti, dove si riconferma, con bellissimi versi, la riabilitazione dei defunti in un discorso che fa parlare gli uomini nel gioco di specchi. Ammonimenti e insegnamenti, nella limpidezza comunicativa, fanno aumentare il rimpianto per chi non c’è più, ma traspongono voci e gesti, allusioni, stratagemmi espressivi. La riflessione rimane sempre desta, un elemento portante del verso. Un’ansia d’amore, un’intemperanza, ma anche un freno razionale che brucia l’apparizione della donna in istantanee, in bagliori che inghiottono i momenti tesi, i più descrittivi. La salvazione è nel bisogno della durata, nel tentativo di dare brio all’onda lunga della famiglia, ad un movimento interno che è anche linguistico, nel dialogo diretto con le cose, con un discorso da non interrompere nella ricucitura spazio-temporale.

Ma se l’esempio di Attilio Bertolucci ci conduce verso una geografia di luoghi piuttosto precisa e circoscritta, Alberto Bevilacqua ci trasporta in una geografia che vuole sedimentare le storie in una tensione non solo di ambienti mitici. La luce bertolucciana afferra l’anima di un posto perfetto, oltre che di chi vi accede consapevolmente. Quella di Bevilacqua, nel viaggio a ritroso, afferra la ragione di persone con il loro riecheggiare costante in una vicendevole intesa. L’amore per la terra è l’amore per chi ha vigilato su questa terra. Il viaggio conserva pertanto qualcosa di primordiale, di essenziale in una specie di coscienza esiliante. La radice identitaria non trova requie, ma solo continue conferme in questo andamento paziente, allusivo al rapporto tra il pensiero e la natura. Ogni persona si fa cellula e midollo ed ogni attimo assume una valenza assoluta. La poesia di Bevilacqua è piena di culmini, rebus, affanni, tregue.


09/02/2021

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