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Fuoricampo

APPUNTI DI POESIA

di Ferruccio Benzoni

Pasolini ha decretato la fine dell’Avanguardia con l’inesauribile spirito polemico che da un decennio a questa parte lo rende al centro d’ogni discussione e ‘querelle’ letteraria. Occorre subito riconoscere l’attualità della denuncia in un periodo in cui i giochetti intellettualistici, endoletterari degli “avanguardisti” mostrano la corda, così come insanabile appare una lacerazione in seno al GRUPPO ’63 fra una corrente sostanzialmente strutturata da una visione ideologica e dunque a modo suo impegnata, con in testa Sanguineti e Pagliarani e Leonetti, e un’altra volutamente disimpegnata sostenuta ad esempio da Barilli.


Si potrà più o meno dissentire dai termini del necrologio di Pasolini, resta il fatto che si deve ampiamente riconoscere l’inattualità, l’estenuazione di quei moduli formali che pur teoricamente da un’abile, vigorosa dialettica (Sanguineti ad esempio), ricadono inevitabilmente in un nuovo ermetismo viscerale e nevrotico, in un’accondiscendenza compiaciuta a formule stilistiche che lasciano il tempo che trovano, smentendo le velleitarie pretese di contestazione in seno alla società borghese. Ricordiamo la critica demistificante dei poeti dell’avanguardia a scrittori tradizionali e ‘riservati’ e soprattutto la denominazione provocante di “Liala” affibbiata a Cassola e Bassani.


E certo le pretese di purezza poetica manifestate nei suoi ultimi romanzi (da Il cacciatore a Tempi memorabili a Storia di Ada, per intenderci), le sbandierate “epifanie” alla Joyce che divengono banalità nel contesto delle sue opere, non demeritano affatto, pur con tutto il rispetto che si deve alla coerenza e alla serietà di Cassola, tale caustico epiteto. Ma che dire poi dei presuntuosi e pretestuosi sperimentalismi del GRUPPO ’63? E ancora: quale la via da seguire per un’effettiva poesia di contestazione dell’attuale sistema, per una modernizzazione intrinseca del linguaggio?

Pasolini rivendica una struttura provocante, tesa, arrabbiata, sorretta da un fervore che affondi le sue radici nell’animus dei vari movimenti ribelli e giovanili sorti ultimamente un po’ dovunque. Una rabbia all’inglese – pensiamo noi – prendendo a modello un Richardson o un Osborne. Ma la borghesia italiana, e se ne rende perfettamente conto l’autore di Una vita violenta, non è la grossa borghesia anglosassone da smantellare nei suoi saldi principi e nelle sue pregiudiziali conservatrici. Viene dunque oggettivamente a mancare il “campo di battaglia” e con esso la prospettiva di una vera, grande rabbia all’inglese.


Noi pensiamo che in primo luogo ci si debba rivolgere alla persona del poeta. Pretendere da lui una scelta perentoria di ordine civile e politico, concretizzato in un’attiva protesta di fatto. Ne sortirà una poesia che sappia spaziare sulle grosse questioni d’oggi in una lingua modernamente espressiva, aperta, che ne testimoni la diretta partecipazione dell’autore pur tra gli assilli, diciamo quotidianamente umili, che lo colgono in quanto uomo implicato, e non solo in senso culturale, responsabilmente nella società.

Crediamo che una sintesi poetica dell’attuale modo di vivere in una società come la nostra improntata al profitto e ai consumi debba comportare una componente fortemente psicologica quale il rischio dell’alienazione, l’integrazione, un lucido sofferto snaturamento della propria persona nelle malìe pubblicitarie, nevrotiche, tecnocratiche dell’attuale sistema. Rischio, aberrazione che un nuovo espressionismo poetico può far suoi senza trascendere nell’altro rischio e cioè di un’angoscia esistenziale a fini puramente estetizzanti, magnificanti. A tal proposito La vita in versi di Giudici con la sua vigorosa, asciutta struttura può servire da esempio illuminante. E d’altra parte l’implicata componente irrazionale può – a nostro avviso – essere un modo di minare con la sua carica controcorrente e si badi consapevole, la rigida forma di razionalismo borghese così come traspare in una società come la nostra.


È questa una prospettiva, un abbozzo e niente più di abiura poetica, in cui il problema del linguaggio passa in seconda linea a integrazione di tutto un comportamento, di tutta una battaglia culturale. Un linguaggio che supponiamo pure vivido discorsivo e mimetico alle situazioni poetiche, alle scelte traumatiche, ai modi quotidiani di una vita che cerca altri binari.

Tale presa di posizione implica necessariamente per non risultare sterile, vana, un lavoro d’équipe non dissimile da un punto di vista organizzativo da quello del GRUPPO ’63. È necessario far sentire la propria voce da apposite riviste di critica letteraria, è necessario pronunciarsi continuamente sul nostro stagnante mondo delle lettere, sulle pagliacciate di certi premi letterari, sugli intrallazzi industriali miranti a monopolizzare la penna degli scrittori.

Resta il fatto che una poesia non influisce mai direttamente sulla realtà; ma, in quanto comunicazione, deve avvalersi di quegli strumenti (il linguaggio nel caso nostro) che la rendano immediatamente accetta, cioè comprensibile, a qualsiasi livello. Dall’immediata comprensibilità scaturisce un intervento emotivo istantaneo e positivo, capace di andare oltre a un effimero “brivido” in quanto la struttura portante della poesia coi suoi motivi di fondo, è oggetto della ragione e in essa si radica.


Mai la poesia e l’arte in genere potranno essere “veramente tali” finché l’uomo e con ciò il poeta, l’artista, non potrà fare a meno d’incappare nei drammatici conflitti della realtà, nei soprusi e nelle ingiustizie nei mali che affliggono il mondo. E questo per coloro che in qualsiasi manifestazione artistica a carattere civile e politico vedono una strumentalizzazione e quindi un decadimento dell’arte come espressione pura. Discorso questo che a molti non potrà non apparire scontato ma cui ancora parecchi sono allergici pur dopo le polemiche del dopoguerra neorealista e impegnato. Non si può dar torto a chi parla di crisi della poesia della letteratura in generale, poiché tale crisi è crisi primariamente della società e dell’uomo. Ma il compiacimento estetico di una tale situazione è puramente gratuito. Meglio tentare nuovi sbocchi ma sempre senza perdere di vista una propria legittima meta e i limiti della situazione in cui si è portati ad esprimersi.

La poesia che oggi rivendichiamo come sintesi dell’attuale pur con il filtro dell’emotività e con una coscienza di effettiva contestazione non può non abiurare dai giochi verbali dell’Avanguardia. Valga a tal proposito un verso dello stesso Beckett: «Meglio abortire che essere sterili».



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Appunti di poesia è apparso per la prima volta sulla rivista «Potere sociale» nel 1967.


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Fotografia ©  Luigi Ghirri


04/06/2024

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