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Title

Fuoricampo

IL RICORDO DELLA TERRA.
NEL TRENTENNALE
DI ALBINO PIERRO

di Giuseppe Ferrara

Il 23 marzo 1995 si spegneva a Roma il poeta Albino Pierro. Era nato a Tursi, in Lucania, il 19 novembre 1916.

Ancor oggi, a trent’anni dalla morte, Pierro viene impropriamente considerato un poeta dialettale, definizione che da parte sua ha sempre considerato con fastidio. In una delle rare testimonianze autobiografiche lasciateci, è egli stesso a narrare e datare precisamente l’avvio del proprio poetare nel dialetto di Tursi che, di fatto, è da considerarsi una vera e propria lingua arcaica, prelatina:


«Il 23 Settembre del 1959, a Roma, di ritorno dalla Lucania, avvertii il bisogno di esprimermi in tursitano. Ero partito da Tursi prima del previsto, e la partenza, ingenerando in me un senso quasi angoscioso del distacco, mi aveva turbato. Prima di lasciare la grande casa di famiglia, la casa della mia infanzia, u pahazze, m’ero affacciato a uno dei balconi, e avevo contemplato con intensa commozione quella che sarebbe divenuta per me un’autentica ‘terra del ricordo’».


Comincia così l’identificazione della lingua poetica con l’idioma dell’infanzia, nel momento in cui la terra di fronte alla casa natale diventa luogo di ricordi: a partire da quelli lontanissimi, preistorici e dunque trasmessi e tramandati da un linguaggio pre-scritto, ovvero avvertito attraverso suoni, voci, segni e «gridi dell’anima».


La scelta pierriana sembrerebbe quasi un riflesso condizionato a un cambio di scenario epocale che era in corso in Italia alla fine degli anni ’50 del Novecento: l’avvento della modernità, con tutto l’armamentario necessario ad accompagnare il mondo verso il futuro. Il primo, fra tutti questi nuovi strumenti, era la sistematica eliminazione del passato e la cancellazione delle sue tracce.

Analogamente, oggi si potrebbe individuare nell’Intelligenza Artificiale – paradigma di una memoria ‘sovraumana’ e illimitata – lo strumento principale del cambiamento epocale che stiamo vivendo.


Pierro conosceva bene il valore delle lingue considerate morte o destinate a scomparire. Sapeva come i greci e i latini avevano inscritto nei loro idiomi, e dunque nel loro corpo storico, precise relazioni spazio-temporali che ancor oggi, nel considerarle, manifestano proprie irriducibili peculiarità. Ad esempio si ricorderà come in latino ante sia un avverbio di tempo che significa ‘prima’, ma anche un avverbio di luogo che vuol dire ‘davanti’; parallelamente post significa ‘dopo’ ma anche ‘dietro’.


Cosicché con queste lingue antiche potevano crearsi paradossi temporali per i quali posteriore andava a indicare qualcosa che è dietro di noi ma deve ancora accadere, e anteriore designare ciò che ci sta davanti ma è già passato.

Pierro, avvertendo l’urgenza di contrastare il cambio di scenario che la modernità stava producendo, da poeta non poteva che farlo lavorando in profondità sul linguaggio. Un idioma, anzi un idioletto, che egli avrebbe recuperato e riordinato in una fonetica, una morfologia e una sintassi rispondenti a quanto di misterioso e profondo non si poteva e non si doveva dimenticare: le litanie, i lamenti funebri, le filastrocche e le formule apotropaiche, nel tentativo di ri-creare quel mondo ‘infantile’ fatto di simboli e riti, e così riportare alla luce quei reperti di una civiltà semisepolta ma non scomparsa.

Con il proprio ‘avvio al poetare’ Pierro intese pertanto affidarsi, quasi in devota sottomissione, a uno dei più arcaici dialetti dell’intero sistema neolatino, studiato dal glottologo Gerard Rohlfs e dal suo maestro Heinrich Lausberg, in quell’estrema lingua di terra (sic!) calabro-lucana che verrà, per questo, definita area Lausberg’.


Prima di questa vera e propria catastrofe linguistica, Pierro aveva pubblicato Liriche nel 1946 e successivamente, fino al 1960, altre cinque raccolte di versi, tutte in lingua italiana.

La cruciale ‘svolta dialettale’ ebbe luogo solo nel 1960, con ’A terra d’u ricorde (La terra del ricordo), quando egli aveva ormai quarantatré anni.

Nel 1976 vinse il Premio Carducci e negli anni ’80 venne candidato al premio Nobel, premio che per i soliti ‘pasticciacci brutti all’italiana’ non gli fu mai conferito: la storia è nota ed è stata accuratamente documentata da Rocco Brancati nel suo Ritratto di poeta. Albino Pierro: intrigo a Stoccolma (RCE Edizioni, 1999).


Da questa prospettiva Pierro appare una figura mitica al pari di un tempio greco con alcune colonne ancora erette e altre coricate a terra, semisepolte o ancora da riportare alla luce. Il poeta lucano è, cioè, un simbolo di civiltà sepolte ma non scomparse; un idolo che trasmette la memoria; il ricordo di una terra e di una lingua, ma, soprattutto, Pierro è l’inconsapevole esemplare del sopravvissuto alle catastrofi. Proprio come di fatto lo è, ancor oggi, un tempio greco.


A segnare la sua esistenza furono tre episodi traumatici: la morte della madre dopo il parto, una grave malattia agli occhi che da bambino lo costrinse spesso a restare al buio e, infine, una serie di trasferimenti da Tursi in altre località fino alla definitiva emigrazione a Roma – allontanamenti dal luogo d’origine vissuti come un vero e proprio esilio.

Per tutte queste ragioni la poesia pierriana si configura come fortemente psicoanalitica: dominata da archetipi, pulsioni oniriche e intuizioni ipnotiche dove il futuro sembra risiedere nel passato e la verità è qualcosa che va ‘scoperto’ a ritroso anziché ‘inventato’ in avanti.


Stupiscono a volte le coincidenze fra vite di individui lontani e diversi. Nel 1982 – quasi esattamente nello stesso anno in cui aveva inizio l’‘intrigo a Stoccolma’ che coinvolse Albino Pierro – Gabriel García Márquez, l’autore colombiano padre del cosiddetto ‘realismo magico’, vinceva il premio Nobel per la letteratura.

Ecco, Macondo e Tursi sembrano essere i piccoli teatri sperduti della stessa intuizione lirica di portata universale, un’intuizione che Márquez sintetizzò mirabilmente nell’aforisma: «la vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla».

In Pierro, la medesima consapevolezza si riduce ancor più all’osso: «la vita è ’a terra d’u ricorde».


Questa inattesa sovrapposizione fra mondi tanto distanti ci predispone a cogliere un aspetto importante relativo all’acquisizione di conoscenze da parte della specie umana: diversamente da quanto si tende a credere, le azioni di scrivere e leggere (e di riscrivere e rileggere) non corrispondono a un semplice raccontare o rievocare dati e fatti, allineandoli in oggettivo ordine di accadimento.

Scrivere (al pari di leggere) per il poeta non ha a che fare con Chronos, il tempo che scorre, e dunque con una serie di eventi da disporre in sequenza, ma con Kairòs: il tempo propizio che consente di cogliere segni (e sogni) epifanici della propria vicenda storico-biografica.

E questa sorta di illuminazione rappresenta due aspetti primari e identificativi della specie Homo: ‘trasmettere’ e ‘tramandare’.

Albino Pierro, nel momento di angoscioso distacco dalla Lucania in cui aveva avvertito il bisogno di esprimersi in tursitano, si era accostato a una fondamentale intuizione magico-realistica: la lingua italiana poteva bastare a trasmettere, ma non era sufficiente a tramandare.

Un tempio greco, così come è arrivato fino a noi, può mostrare delle colonne ancora bene erette e conservate mentre altre potrebbero risultare spezzate e riverse a terra, e molte altre si possono ipotizzare tuttora sepolte.

Sono essenzialmente questi elementi invisibili, tanto anteriori a noi posteri, che continuano a trasmettere e a tramandarci.

Quasi fossero il vero e proprio ricordo della terra.



O NOTTE


O notte,

seppelliscimi in te,

tu che del tempo sei l’ora più santa.


I miei occhi non sanno

spalancarsi d’amore per il sole,

forse perché s’intrise di miserie

la sua limpida fonte.


Ho sanguinato per le vie del mondo,

caddi e la bocca mi s’empì di terra,

fui nel chiasso degli uomini

l’ansante preda che non ha più scampo.


O notte, o notte,

si è rifugiato in te lo sperso bandolo

della mia vita inutilmente spesa,

a me stesso rivèlami

tu che per occhi e labbra offri le stelle.


[da Nuove liriche, 1949]



I ’NNAMMURÈTE


Si guardaàine citte

e senza fiète

i ’nnammurète.

Avìne ll’occhie ferme

e brillante,

ma u tempe ca passàite vacante

ci ammunzillàite u scure

e i trimuìzze d’u chiante.


E tècchete, na vota, come ll’erva

ca tròvese ’ncastrète nda nu mure,

nascìvite ’a paròua,

po n’ata, po cchiù assèi:

schitte ca tutt’i vote

assimigghiàite ’a voce

a na cosa sunnèta

ca le sìntise ’a notte e ca po tòrnete

chiù dèbbua nd’ ’a iurnèta.


Sempe ca si lassàine

parìne come ll’ombre

ca ièssene allunghète nd’i mascìe;

si sintìne nu frusce, appizutàine

’a ’ricchia e si virìne;

e si ’ampiàite ’a ’ùcia si truvàine

faccia a faccia nd’u russe d’i matine.


Nu iurne

– nun vi sapéra dice si nd’u munne

facì’ fridde o chiuvìte –

’ssìvite nda na botta

’a ’ùcia di menziurne.


Senza ca le sapìne

i ’nnammurète se tinìne ’a mèna

e aunìte ci natàine nd’ ’a rise

ca spànnene i campène d’u paìse.

Nun c’èrene cchiù i scannìje;

si sintìne cchiù llègge di nu sante,

facìne i sonne d’i vacantìje

cucchète supre ll’erva e ca le vìrene

u cée e na paùmma

casi pàssete ’nnante.


Avìne arrivète a lu punte iuste:

mo si putìna stringe

si putìna vasè

si putìna ’ntriccè come nd’u foche

i vampe e com’i pacce

putìna chiange rire e suspirè;

ma nun fècere nente:

stavìne appapagghiète com’a ’a niva

rusète d’i muntagne

quanne càlete u sòue e a tutt’i cose

ni scìppite nu lagne.


Chi le sàpete.

Certe si ‘mpauràine

di si scriè tuccànnese cc’u fiète;

i’èrene une cchi ll’ate

’a mbulla di sapone culurète;

e mbàreche le sapìne

ca dopp’u foche ièssene i lavìne

d’ ’a cìnnere e ca i pacce

si grìrene tropp assèi

lle ’nghiùrene cchi ssèmpe addù nisciune

ci trasèrete mèi.


Mo nun le sacce addù su’,

si su’vive o su’morte,

i ’nnammurète;

nun sacce si camìnene aunìte

o si u diàue ll’è voste separète.

Nun mbogghia Ddie

ca si fècere zang ’nmenz’ ’a via.


Gli innamorati. Si guardavano zitti / e senza fiato / gli innamorati. / Avevano gli occhi fermi / e brillanti, / ma il tempo che passava vuoto / vi ammucchiava il buio / e i tremiti del pianto. // Ed ecco, una volta, come l’erba / che si trova incastrata dentro un muro, / nacque una parola, / poi un’altra, poi più assai: / solo che tutte le volte / la voce somigliava / a una cosa sognata / che la senti di notte e che poi torna / più debole durante la giornata. // Sempre che si lasciassero / sembravano come le ombre / che si allungano nelle magie; / se sentivano un rumore, aguzzavano / le orecchie e si vedevano; / e se lampeggiava la luce si trovavano / faccia a faccia nel rosso dei mattini. // Un giorno / – non saprei dirvi se nel mondo / facesse freddo o piovesse – / uscì tutt’a un tratto / la luce di mezzogiorno. // Senza che lo sapessero / gli innamorati si tenevano per mano / e nuotavano insieme nel sorriso / che le campane del paese spandono. / Non c’erano più angosce; / si sentivano più lievi di un santo, / facevano i sogni delle giovinette / coricate / sull’erba e che vedono / il cielo e una colomba / che gli passa davanti. // Erano giunti proprio al punto giusto: / ora si potevano stringere / si potevan baciare / si potevano unir come nel fuoco / le vampe e come i pazzi / piangere ridere e sospirare; / ma non fecero niente: / se ne stavano assorti come la neve / rosata delle montagne / quando il sole tramonta e ad ogni cosa / strappa un lamento. // Chi lo sa! / Senza dubbio temevano / di sparire toccandosi col fiato: / eran l’uno per l’altro / la bolla di sapone colorata; / e forse lo sapevano / che dopo il fuoco scorrono torrenti // di cenere e che i pazzi / se gridano troppo / li chiudono per sempre dove nessuno / oserebbe entrar mai. // Ora non so dove sono, / se son vivi o son morti, / gli innamorati; / non so se camminano insieme / o se il demonio li abbia separati. / Non voglia Iddio / sian divenuti fango nella via.


[da I ’nnammurète, 1963; versione italiana dell’autore]



A CHIST’ORA


Si avére sapute sputè

com’a nu crapère,

a chist’ora,

lle putèresa dice belle ca nichète,

u munne.


«Ma ci su’ i uagninèlle maète

e i vecchie senza nisciune»

mi scrirràite ’a lune:

sta lune pinzirose

ca nun s’è mpaurète mèi nd’u scure,

come nda nu mère di spine

’a rose.


A quest’ora. Se avessi saputo sputare / come sa fare un pastore, / a quest’ora / potresti darlo bello che annegato, / il mondo. // «Ma ci sono i bambini malati / e i vecchi senza nessuno» / mi sgridava la luna: / questa luna pensosa / che non si è mai impaurita nel buio, / come in un mare di spine / la rosa.


[da Nd’u piccicarelle di Turse, 1967; versione italiana G. Ferrara]



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Fotografia © David Alan Harvey


11/07/2025


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