Cavolacci riscaldati
ANDREA ZANZOTTO
E LA TRADIZIONE VIVIFICANTE
di Leonardo Tonini
Nell’ipersonetto – punto centrale e cardine del suo Il galateo in bosco (1978) – Andrea Zanzotto tenta l’esperimento decisamente ardito di vedere quanto sia possibile adattare al mondo d’oggi la classicità e quanto questa sia ancora soprattutto fonte di significato e possibile chiave di lettura del presente.
Prende quindi la forma più tipica della letteratura italiana e congegna, proprio all’interno del suo libro più sperimentale, un capolavoro di rimandi interni alla stessa costruzione dell’ipersonetto e esterni a tutta la nostra tradizione poetica, dalle origini al contemporaneo. L’apparente difficoltà di lettura è data appunto da questa ipersignificazione, che porta la densità di scrittura a un livello che è esso stesso metafora della scrittura. Ma andiamo con ordine.
La tradizione letteraria si è presentata negli ultimi decenni come un «congestionato cimitero di rottami – griglie interpretative saltate, teoremi scoppiati in aporie, definizioni perdutesi in sabbie, fraseggi in lingue la cui chiave è stata gettata» [1] e viene dai più sentita come monumento, conosciuta a livello scolastico, anche universitario, come abbellimento alla storia patria, sepolcro, oggetto di devozione però incapace di interpretare il contemporaneo o di fungere da guida.
Vi sono poeti, dice ancora Zanzotto, che si misurano con la tradizione e traggono il nuovo da una lotta con il passato (un confronto che il poeta di Pieve di Soligo definisce nevrotizzato [2]), ma nessuno che prenda il corpus della tradizione italiana e provi a vedere fino a che punto essa davvero possa uscire dalla monumentalità ed essere lingua, strumento per decrittare il mondo e per farne una rappresentazione spendibile, un agire.
Su questo tentativo, nell’ipersonetto si stratificano altre volontà che troviamo ne Il galateo in bosco in primis e in maniera più sfumata in tutta l’opera di Zanzotto: il bosco, appunto, inteso quale esplosione di vita e di complessità proteiforme che la vita, specialmente vegetale, porta con sé; il sentiero degli ossari, nella doppia accezione di memoria della guerra (c’è appunto nel Montello, presso Pieve di Soligo, la Linea degli Ossari) e della crosta terrestre (la Faglia Periadriatica, altra fonte di ricerca del nostro)... Inoltre la tradizione letteraria rappresenta, per lui, l’ossario delle intenzioni degli uomini, di altre volontà di vita.
La lingua è una serpe che si divincola tra significato e significante, che vuole dire ma non dice abbastanza e al contempo si tradisce, e l’andatura stessa della scrittura dei testi serpeggia tra i molteplici rimandi letterari e livelli di lettura. Il raschiamento del significato mette a nudo la parola, anche attraverso la lingua balbettante [3] dei bambini (petel) e dei vecchi (dialetto). Il tutto allo scopo di stabilire, o provare se è possibile oggi stabilire, le norme per un futuro approccio all’utilizzo della tradizione poetica – bene sapendo, Zanzotto, che la funzione della poesia è ancora e sempre non quella di descrivere, bensì di rendere visibile, la creazione di un immaginario, la poiesis.
Non essendo questa la sede per un’analisi puntuale dell’ipersonetto [4], voglio proporre una parafrasi del primo componimento, che segue la Premessa nella sezione formata da 16 sonetti (uno per ogni verso più due, in apertura e in chiusura).
(Sonetto di grifi ife e fili)
Traessi dalla terra io in mille grifi
minimi e in unghie birbe le ife e i fili
di nervi spenti, i sedimenti vili
del rito, voglie così come schifi;
manovrando l’invitto occhial scientifico
e al di là d’esso in viste più sottili,
da lincee linee traessi gli stili
per congegnare il galateo mirifico
onde, minuzie rïarse da morte
– corimbi a greggia, ombre dive, erme fronde –,
risorgeste per dirci e nomi e forme:
rovesciati gli stomaci, le immonde
fauci divaricate, la coorte
dei denti diroccata: ecco le norme.
Si tratta di un unico periodo che, in estrema sintesi, dice: io, manovrando con sguardo scientifico, traggo dalla terra i sedimenti e, al di là di essi, gli stili per congegnare lo stupefacente galateo da cui (come «ombre» e «corimbi»), dopo un lavoro di distruzione («fauci divaricate, la coorte dei denti diroccata»), mi vengono presentate le norme.
Ora, per capire meglio cosa intende Zanzotto con ‘uso della tradizione’, si noti come nel primo verso compaia la parola grifo (che indica propriamente il muso del maiale) al plurale – rimando dantesco insieme con il successivo schifo [5], sempre al plurale. Dante scrive infatti: «e non ten vegna schifo [...] però ti china e non torcer lo grifo». E prima, sia in lui che in Zanzotto, si parla di terra.
Cioè: non aver paura di mettere il muso nella terra e di trarre «i fili / di nervi spenti» (ife e birbe sono termini tecnici della botanica, riferenti in particolare ai funghi), «i sedimenti vili del rito / voglie così come schifi».
E da questo fare, trarre il Galateo, nel senso di raccolta di norme, anche comportamentali (occhial scientifico richiama Galileo e la scienza, cercatrice di norme).
Mi fermo qui, a poche indicazioni. Mi preme invece sottolineare che l’operazione zanzottiana non è sterile sfoggio di erudizione, ma appunto ‘ricerca’, scavo incessante al fine di trovare (filosoficamente) il punto di incontro tra parola e verità, tenendo ben presente la lezione di Jacques Lacan e il suo ‘parlare difficile’ come impedimento/stimolo al desiderio e salvaguardia dell’insegnamento del passato e dell’opera dei poeti, elevati al rango di coloro che traghettano dal regno dei morti ciò che salva i vivi dalla disperazione (Orfeo).
*
[1] A. Zanzotto, La carta s’increspa: sta sorridendo, «L’Espresso», 14 ottobre 1979.
[2] Cfr. A. Zanzotto, Alcune prospettive sulla poesia oggi, in Id., Le poesie e prose scelte, Mondadori, 1999.
[3] Nel senso di barbarica, minoritaria.
[4] Rimando a M. Bordin, Il sonetto in bosco. Connessioni testuali, metriche, stile nell’Ipersonetto di Zanzotto, in «Quaderni Veneti», 18, dicembre 1993.
[5] Inferno, canto XXXI, vv. 122 e seguenti.
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Immagine di copertina: Andy Warhol, Fiesta Pig, 1979
16/11/2021