Cavolacci riscaldati
DIETRO LA SEMPLICITÀ.
SU UNA POESIA DI
UMBERTO SABA
di Leonardo Tonini
Vorrei prendere in esame una poesia di Umberto Saba, non una delle più famose, ma una delle tante quasi sconosciute (a petto delle celebri) tra quelle che compongono quel mirabile affresco di un’anima che è il Canzoniere.
La poesia in questione s’intitola Sul prato:
È così scarso, quest’ottobre, il caldo
del sole, che al pallore tuo non giova,
bimba, sul prato color di smeraldo.
Presso è un ruscello: e a una domanda tua
io rispondo che è molta acqua di piova:
tu mi chiedi se corre a casa sua.
O mi chiami, onde più in fretta si vada
qualche passo più in là sull’ampia terra;
dove quei maschi giocano alla guerra
e le bambine come te alla casa.
Viene in mente di primo acchito l’impianto madrigalesco caro al Pascoli di Myricae. Pur trattandosi di un madrigale trecentesco (come si evince dalla struttura metrica del testo), Saba, diversamente dal poeta romagnolo e dal modello petrarchesco cui Pascoli stesso attinge, preferisce legare gli endecasillabi in rima incrociata piuttosto che alternata. Abbiamo così due terzine connesse dalla rima centrale e una quartina finale con un’assonanza ai vv. 7 e 10 (vada : casa).
La poesia è qui riportata nella sua versione originale, come si legge in Coi miei occhi (1912), seconda raccolta sabiana, che verrà successivamente chiamata col titolo per cui è universalmente nota, Trieste e una donna, e inclusa infine, nella sua sistemazione definitiva, nella silloge La serena disperazione del 1915.
Oggi pare un’eresia proporre uno stesso testo in più libri o titoli diversi per un libro solo: pochi sono a conoscenza che un capolavoro del Novecento come Il porto sepolto sia stato ripubblicato 8 volte, vivo l’autore, e con dei mutamenti talora significativi.
Torniamo a Saba. La critica rileva qualche affinità tra le immagini iniziali di Sul prato e la poesia di Pascoli Il miracolo: «Vedeste l’erba lucido tappeto, / e sulle pietre il musco smeraldino; / […] Vedeste azzurro scendere il ruscello / fuori dei monti, fuor delle foreste» – connessione che appare perlomeno discutibile. Ancora più discutibile ci sembra l’intuizione di Claudio Milanini, che vi ritrova il Govoni della seconda quartina di Alito di ventaglio: «Presso un canale una bambina triste / da gli occhi a mandorla, fiori di loto, / soavemente sfilza dal suo Koto / dei suoni come grani d’ametiste»: è appurato, del resto, che quest’ultima poesia è un’imitazione da Goncourt [1]. Inoltre, non sembra del tutto verosimile che un autore come Umberto Saba, poeta in un certo senso nato maturo, abbia qui subito l’influenza di Govoni e della sua opera giovanile Le fiale (1903).
Più pertinente è forse l’accostamento degli ultimi versi di Saba al Parini de L’innesto del vaiuolo (vv. 43 – 46):
Crescete o pargoletti: un dì sarete
Tu forte appoggio de le patrie mura,
E tu soave cura,
E lusinghevol’ esca ai casti cori.
Il topos per cui i «maschi giocano alla guerra / e le bambine come te alla casa», conoscendo anche la passione del giovane Saba per Sesso e carattere di Otto Weininger, non può dunque sorprenderci.
Quel ruscello che «corre a casa sua» ha fatto pensare a Eraclito, così come il passaggio veloce della bambina che un attimo chiede di dove venga quell’acqua e un attimo dopo, già dimenticata la questione, chiede al papà «onde più in fretta si vada / qualche passo più in là sull’ampia terra» per giocare con gli altri bambini. Nell’opera sabiana, del resto, sono numerosi i rimandi alla tematica del fiume eracliteo, benché si tratti di un Eraclito conosciuto attraverso il filtro delle superomistiche traduzioni di Nietzsche che a quel tempo circolavano in Italia [2]. Ma, almeno per questa poesia, è bene non sbilanciarsi in tal senso.
Chiariamo: è senz’altro vero che Umberto Saba, specialmente da giovane, fosse imbevuto di questa cultura che oggi chiameremmo irrazionalista e che all’epoca, prima della Grande Guerra, andava di moda tra gli intellettuali di mezza Europa, ma è altrettanto vero che Saba si fece latore, prima in modo inconsapevole e quindi sempre più coscientemente, di un modo di intendere la poesia ancor prima che di fare poesia.
Il suo famoso manifesto Quel che resta da fare ai poeti è del 1912. In questo testo egli dichiara apertamente che la poesia deve essere capace di esprimere con sincerità e senza esagerazioni la condizione esistenziale dell’uomo al fine di rappresentare «la realtà quotidiana e non la realtà straordinaria». Scrive infatti: «solo quando i poeti, o meglio il maggior poeta di una generazione, avrà rinunciato alla degradante ambizione propria – purtroppo! – ai temperamenti lirici, e lavorerà con la scrupolosa onestà dei ricercatori del vero, si vedrà quello che non per forza d’inerzia, ma per necessità deve ancora essere significato in versi».
Perciò si ingegna di analizzare il suo animo per comprendere gli schemi di pensiero, i dissidi interiori e arrivare a una maggiore consapevolezza che si traduce in sincerità. Questo pensiero, che per il nostro poeta è un credo, anche in virtù del tono lapidario che usa (per non imporlo ad altri che a sé stesso), sarà mantenuto con coerenza per tutta la vita. Il risultato è una poesia che, pur consapevole dal punto di vista formale, si distacca tuttavia dall’aulico e cerca la quotidianità, le piccole cose:
Amai trite parole che non uno
osava. M'incantò la rima fiore
amore,
la più antica, difficile del mondo.
Amai la verità che giace al fondo,
quasi un sogno obliato, che il dolore
riscopre amica. Con paura il cuore
le si accosta, che più non l'abbandona.
Amo te che mi ascolti e la mia buona
carta lasciata al fine del mio gioco.
Nella poesia Sul prato, qui presa in esame, è descritta una giornata di ottobre che il sole scalda scarsamente e ciò impensierisce il papà che vorrebbe la figlia Linuccia più in salute di come gli appare, quando in realtà la figlia è assai vivace (chiede da dove venga l’acqua del torrente e, subito dopo, di andare dai bimbi a giocare).
Ciò che spesso i critici dimenticano è di fare attenzione all’anno in cui i fatti avvengono rispetto alla vita degli autori. Qui bisogna concentrarsi su una sola data: il 1912, anno – come dicevamo – di pubblicazione della raccolta Coi miei occhi e del saggio di poetica Quel che resta da fare ai poeti. È qui che Saba si discosta nettamente dal superomismo alla D’Annunzio, nonché dal piagnisteo dei crepuscolari, ed è da qui che prende avvio un modo di intendere la poesia che avrà, successivamente, tra i suoi più autorevoli rappresentanti Bertolucci e Penna.
Nel 1912 Umberto Saba aveva 29 anni, Linuccia 2. Il porto sepolto e Ossi di seppia erano ancora di là da venire.
*
[1] «Une petite figurine de femme, jouant d’une grande harpe posée sur les replis d’un dragon, dont la tête se soulève au-dessus du kotô, comme charmé par son harmonie». E. de Goncourt, La maison d’un artiste.
[2] Probabilmente Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno. Versione dal tedesco di Edmondo Weisel riveduta da R. G., Fratelli Bocca, Torino 1899. Le traduzioni italiane di Nietzsche, precedenti a quella di Di Colli e Montinari iniziata alla fine degli anni ’50 e portata a compimento negli anni ’80, erano viziate dalla ideologia ‘pre-nazista’ della sorella Elisabeth Förster-Nietzsche.
25/01/2022