
Cavolacci riscaldati
LA FINE DELLA CRITICA
di Leonardo Tonini
Più di 30 anni fa scrivevo per la Gazzetta di Mantova, mi occupavo di teatro e cultura in generale. Ero corrispondente dal mio paese, pagato 5 mila lire a colonna. Se il mio articolo veniva messo su 4 colonne, mi davano 20 mila lire, se invece c’era spazio solo per una colonna, lunga anche tutta una pagina, pigliavo 5 mila lire. A me, sedicenne, bastava, e d’avanzo avevo la soddisfazione di scrivere su di un quotidiano.
Le cose però cominciarono a non andare bene molto presto. Un giorno la preside della mia scuola, mi invitò (poiché ero appunto corrispondente) a teatro per una lettura di Roberto Mussapi, gran poeta che si era degnato di rispondere all’invito del mio liceo di venire a presentare il suo ultimo libro. La faccenda era stata posta con molta enfasi: il poeta non veniva a scuola, ma a teatro, non c’era solo la preside ma pure il sindaco e l’assessore e posso immaginare che Mussapi si sia preso anche il suo gettone di presenza. Fin qui tutto bene, negli anni ’90 i poeti erano tenuti più in considerazione di oggi perché ce n’erano di meno, e poi questo scriveva per Mondadori, andava in televisione. Insomma, non dava l’idea di essere l’ultimo arrivato.
Bene, il mio io sedicenne fu invitato, ebbe il suo posto riservato alla stampa, ascoltò la presentazione della preside, dell’assessore, del sindaco, ascoltò il poeta leggere le sue poesie, tornò a casa, scrisse un elzeviro che gli parve discreto, scritto con uno stile che voleva essere mordace, ma con una certa motivazione nei suoi giudizi, dichiarando pure, per eccessiva modestia, che le sue erano più che altro impressioni di uno studente di 16 anni. Per estrema correttezza di ragazzo, prima di spedire alla redazione della Gazzetta, lo passai alla preside. E meno male!, dico oggi. Non avevo mai visto una preside tanto furente; mi impose di non pubblicare quella sequela di insulti e che Mussapi era un grande poeta e io «non avevo il diritto» di scrivere quelle cose. Immagino cosa (mi) sarebbe successo se un poco attento redattore della Gazzetta avesse pubblicato il mio articolo così come l’avevo scritto, senza la preventiva censura presidenziale.
Ma cosa avevo scritto? Il celebre poeta aveva letto un suo lungo componimento dal titolo Il sonno degli eroi, io avevo titolato il mio articolo Il sonno (eterno) degli eroi, spiegando poi che lo spettacolo era stato di una noia appunto mortale... In effetti, dicevo, gli eroi erano stati gli studenti a rimanere svegli. Insomma, al tempo me la presi molto, ma oggi ritengo che la preside avesse le sue ragioni. Il mio era un articolo irriverente.
Io di poesia ne sapevo quanto uno studente di liceo, ma lo stesso non mi tornava qualcosa. Anche se la mia indole polemica e raziocinante a quel tempo tentava di opporsi, sentivo nella voce dei poeti un richiamo. Cioè, non sempre, a volte. Ma quella volta col grande poeta non avvenne nessun miracolo; oltre alla noia, vedevo su quel palco come una caricatura della poesia. Un uomo con la sciarpa da poeta, col cappello da poeta, che declamava versi tronfi e pomposi, senza nessun collegamento con la realtà vera delle cose e della vita. A me le corde della lira di Apollo risuonavano se ci vedevo una luce sulla realtà della vita. Oggi so che non è questo il senso ultimo della poesia, ma insomma, avevo 16 anni. Nella poesia del Sonno degli eroi ci vedevo sì sentenziosità, ma vuota, fine a sé stessa, che non illuminava. Un voler essere più che un essere.
Ma non voglio parlare di Roberto Mussapi. Sinceramente non sapevo nulla di lui, nulla della sua poesia e nulla persino della poesia in generale. Però mi è stato impedito (nei fatti) di pubblicare quell’articolo. Se avessi detto fandonie, mi si sarebbe potuto rispondere per le rime dimostrando la mia esigua contezza nei fatti letterari. Misurarsi con me era una vittoria facile. E non ero stato censurato dal mio giornale che mi pagava (assai poco) e che quindi avrebbe avuto tutto il diritto di rifiutare il mio lavoro. Chi mi aveva impedito di pubblicare, quindi? Tecnicamente nemmeno la preside perché, volendo, avrei potuto mandare ugualmente il mio articolo al giornale. Molte persone si sarebbero offese: la preside, il sindaco, l’assessore, e probabilmente Mussapi stesso, che forse era l’unico che ne avrebbe avuto il diritto. Ecco questa, l’ho capito molti anni dopo, è la morte della critica in Italia. La paura di offendere qualcuno, non l’autore in sé, che come ho detto, ci sta, ma tutto un entourage di sostenitori dei poeti riconosciuti come poeti che (solo in Italia) sono ritenuti sacri e ingiudicabili.
Questa è la norma, oggi. Parlando con un’amica, mi ha rivelato di sentire una critica negativa come una violenza, un fatto personale. Un tempo la poesia era una faccenda di professionisti, e si giocava tra adulti. Non solo tra nomi importanti poteva succedere lo scontro (famoso quello sulle tasse tra Pasolini e Montale), ma, sempre rimanendo a Pasolini, nel suo ‘Descrizioni di descrizioni’, troviamo nomi oggi praticamente sconosciuti. Semplicemente aveva una rubrica ed era un critico militante, si occupava delle nuove uscite.
Oggi pare che ogni percorso fatto con buone intenzioni sia in sé valido. Il risultato è pessimo? Si passa oltre. Criticare sembra ai più come un’operazione inutile, un atto di narcisismo del critico.
Se si esce dalla poesia e si va in altri ambiti artistici, la situazione è però diversa. Nel cinema per esempio viene sentito come normale leggere una recensione così: Film totalmente superfluo, anche in assenza di uno sguardo trash che possa essere d’intrattenimento. Per convincersi di non aver buttato un’ora e mezza della propria vita tra dialoghi beceri e scene d’azione degne dei Power Rangers televisivi, vale la pena cercare una prospettiva ideologica. Il film è infatti un grumo di fantasie ultranazionaliste dalla chiarezza quasi affascinante: cinismo presentato sotto forma di pragmatismo (con relativo vittimismo di coloro che lo perseguono), esaltazione del sacrificio per la patria (quest’ultimo è, secondo uno dei protagonisti, «la moneta del soldato») e machismo esasperante che va a braccetto con la misoginia di relegare i personaggi femminili positivi a ruoli di aiutanti o di cattivi.
E così anche per i libri o per le nuove uscite musicali. Esistono rubriche in quasi tutti i giornali dove si parla di libri e di dischi di ogni genere musicale e letterario, ed è normale trovare anche delle bocciature. E riviste specializzate. Non che una bocciatura in arte debba essere definitiva. Famoso è l’episodio in cui André Gide boccia il primo volume della Recherche, ma queste incomprensioni fanno parte appunto della storia della critica. Anche la Divina Commedia, come ho spiegato in un altro articolo, è stata per secoli considerata alla stregua di una inutile opera di erudizione medievale.
Però per la poesia... sai, non si può; sì hai ragione però... Trovo invece che sarebbe utile trovare il coraggio di esprimere una critica negativa su una nuova uscita di poesia. Già oggi la poesia soffre del grave problema della perdita della tecnica e questo ha fatto sì che chiunque si senta in diritto di scrivere poesie. Introdurre la stroncatura come possibilità frenerebbe un poco il diluvio di inutili pubblicazioni, con libri che vendono 3 copie in tutto, spesso per editori a pagamento o che chiedono all’autore di comprare abbastanza copie perché sia un affare, per l’editore.
Per paradosso, gli unici criticabili oggi sono gli Arminio e i Gio Evan che sono talmente di pubblico dominio che non si rischia nulla a criticarli, non ci vuole un Contini per scriverne male e il dibattito è financo benedetto dai loro editori. Ma non toccate quel qualcuno che ha una piccola corte, che pubblica a sue spese, che è il beniamino di un editore sconosciuto.
Le altre arti hanno una selezione intrinseca che alla poesia manca. Per diventare pianisti bisognerebbe prima fare qualche lezione al piano, con il teatro è opportuno salire su un palco, il cinema come l’architettura muovono capitali, in pittura e scultura ci si misura con un mezzo e con una materia, ma per la poesia che ci vuole? Basta mettersi lì e andare a capo ogni tanto. So di gente che scrive ‘poesie’ direttamente su Facebook o Instagram, così ha risolto anche il problema della pubblicazione.
Tornando al mio articolo, io non pretendevo di avere ragione su Mussapi, esprimevo un mio parere. E nemmeno oggi pretendo di avere ragione, non ho tempo di guardare se ho ragione o meno. Scrivo, dico, e come do io del, ehm, ‘dìdimo’ a uno, sono disposto anche a prendermi in faccia quell’epiteto. Mussapi poi non lo conosco, ha scritto troppo e già non mi era piaciuto allora e non mi è venuta voglia di leggerlo. Se è un genio, me lo sono perso, come chissà quanti altri. Lascio la parola su di lui a chi è migliore di me, come Giacinto Spagnoletti, professore universitario e critico letterario tra i più noti, il quale su Roberto Mussapi dice (cito): «È un fatto però che dalla sua poesia non emerge nessuna importante novità. Si direbbe che la sua ricerca, per la scarsa esperienza del linguaggio poetico, tenti di raggiungere una tensione epica o metafisica. Ma il tentativo resta fermo alle intenzioni».
Di sicuro io non c’ero andato tanto pesante.
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Immagine di copertina: Robert Wilson, Lady Gaga, 2013
31/05/2022