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Cavolacci riscaldati

PASOLINI
E “IL PCI AI GIOVANI”

di Leonardo Tonini

Oggi sarebbe arduo ‘spiegare’ una poesia come Il PCI ai giovani a degli studenti liceali. Non hanno familiarità con il contesto storico né possiedono una vaga comprensione al riguardo, in quanto nessuno gli ha mai fornito le giuste informazioni. In modo paradossale, potrebbero identificarsi più facilmente con testi di epoca medievale o latina rispetto a una poesia scritta 56 anni fa. Fin dalle elementari hanno acquisito conoscenze sulla storia romana e medievale, anche attraverso film e videogiochi ambientati in quei contesti. Una fitta nebbia avvolge invece i due decenni che vanno dalla fine degli anni ’50 agli ’80. Pur avendo sentito parlare della decolonizzazione di alcuni stati africani, la loro attenzione salta direttamente alla fine dell’Unione Sovietica, con pochi eventi chiave come l’assassinio di Kennedy e lo sbarco sulla luna. Se poi si va alla situazione italiana alla nebbia si aggiungono le tenebre.


Eppure la poesia di Pier Paolo Pasolini, o meglio il poemetto, gode di una sorprendente fama. L’autore è famoso, è un’icona della coscienza collettiva di una parte della popolazione italiana, ma Il PCI ai giovani, malgrado la sua complessità, è celebre finanche all’interno della sua vasta produzione. Celebre sì, però conosciuto in senso superficiale e forse per i motivi sbagliati; forse ci si è fermati alla pars destruens, alla critica, e non si è colta la proposta – ancora attuale – di Pasolini.


I versi che incontriamo molto spesso in articoli, sui social e in diversi film sono questi:


     Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte

     coi poliziotti,

     io simpatizzavo coi poliziotti!


Preceduti da:


     Avete facce di figli di papà.

     Avete lo stesso occhio cattivo. 
     Siete paurosi, incerti, disperati 
     (benissimo) ma sapete anche come essere 
     prepotenti, ricattatori e sicuri: 
     prerogative piccoloborghesi, amici.


E seguiti da:


     Perché i poliziotti sono figli di poveri.

     Vengono da periferie, contadine o urbane che siano. 
     Quanto a me, conosco assai bene 
     il loro modo di esser stati bambini e ragazzi, 
     le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui, 
     a causa della miseria, che non dà autorità. 
     La madre incallita come un facchino, o tenera, 
     per qualche malattia, come un uccellino; 
     i tanti fratelli, la casupola 
     tra gli orti con la salvia rossa (in terreni 
     altrui, lottizzati); i bassi 
     sulle cloache; o gli appartamenti nei grandi 
     caseggiati popolari, ecc. ecc.


Ma ciò che è davvero interessante è che social, film, articoli, persino vari siti più o meno ufficiali dedicati al poeta, interrompono il testo a metà:


     A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento

     di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte 

     della ragione) eravate i ricchi,
     mentre i poliziotti (che erano dalla parte 
     del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque, 
     la vostra! In questi casi, 
     ai poliziotti si danno i fiori, amici.


Non vanno oltre questi versi. Già, che cosa succede oltre? Ma soprattutto, perché viene (volontariamente o no) propugnata solo questa parte della poesia che, guarda caso, ci trova tutti d’accordo? E con tutti intendo anche il sito istituzionale della Polizia italiana.


Veniamo ai fatti. Venerdì 1 marzo 1968 circa 4000 studenti si radunarono a Roma, in piazza di Spagna, con l’idea di riprendere possesso della facoltà di Architettura della Sapienza. La facoltà era stata occupata un mese prima e il 29 di febbraio il rettore aveva chiesto l’intervento delle forze dell’ordine per sgomberare la sede. Arrivati all’altezza di Villa Giulia, i  «giovani» si trovarono a fronteggiare un imponente cordone di polizia. Partirono i primi scontri e le prime cariche di alleggerimento, ma quando alcuni agenti riuscirono a circondare uno studente, picchiandolo con violenza, il collettivo reagì e la polizia ebbe la peggio.


Una prima osservazione da fare è che la maggior parte degli studenti era di estrema destra, apparteneva ad Avanguardia Nazionale, un’organizzazione neofascista e golpista italiana, fondata dal noto terrorista Stefano Delle Chiaie. Tra le altre sigle di estrema destra presenti quel giorno, le cronache ricordano il MSI, il FUAN e quindi Primula Goliardica che era la testa di ponte della destra estrema all’interno della facoltà di Architettura. Questo per i tempi era abbastanza normale: sul finire degli anni ’60 l’Italia aveva ancora pochi studenti universitari, figli di gente benestante, e la facoltà di Architettura a Roma era appunto meta ambita e privilegiata. L’1 marzo in piazza c’era anche l’estrema sinistra che si trovava bene o male sulla stessa linea della controparte perché, come accade tuttora, condividevano le stesse modalità di protesta (la violenza) e gli stessi nemici (i vecchi baroni che non lasciano posto ai giovani).


La battaglia di Valle Giulia scatenò una feroce polemica in tutto il Paese, tra confronti, interpellanze e articoli a non finire. Fu uno di quei fatti su cui chiunque in Italia aveva una sua opinione, al di là che fosse più o meno coinvolto o che solo fosse a conoscenza dei motivi dell’occupazione e dello scontro. Nel dibattito mancava però la voce di un protagonista,  scrittore, poeta e cineasta non troppo amato a sinistra e odiato a destra, uomo dello scandalo, forse soprattutto per la vita che conduceva. La sua presa di posizione si fece attendere più di tre mesi e quando fu pubblicata, il 16 giugno, Pasolini si ritrovò tutti contro, e non solo in Italia.


François Revel, scrittore e intellettuale francese, nato socialista e morto firmando una petizione a favore dell’armamento dei contras da parte degli Stati Uniti, scrisse: «Dubito che Pasolini possa trovare in Marx o in Lenin una sola citazione a conforto della sua proposta». Michel Butor, esponente del nouveau roman, parlò di «versi stile cartolina postale». Non andò meglio con gli italiani: per Goffredo Parise, Pasolini in fondo era «un nevrastenico pedagogo»; per Montale la sua non è una poesia bensì «uno sfogo personale»; Franco Fortini consigliò di «dargli qualcosa da leggere o da scrivere perché non disturbi»; persino l’amico e sostenitore Alberto Moravia ebbe da obiettare: «Forse egli si è lasciato trascinare a considerare soltanto gli studenti italiani», non capendo che la rivolta studentesca – «l’avvenimento più importante, più consolante e più positivo che si sia verificato in questi ultimi vent’anni» – «va guardata nella sua totalità, nel mondo intero».


Ma al di là delle critiche dirette o indirette a Pasolini, tutti concordavano sul fatto che il suo scritto rappresentasse un sostegno alla reazione in un momento considerato critico per le battaglie civili. I movimenti rivoluzionari operai erano nati da rivolte studentesche e gli stessi padri del comunismo – Marx, Rosa Luxemburg, Lenin – provenivano da ambienti universitari e borghesi, perciò il gesto di Pasolini apparve perfettamente in linea con quelle tendenze controrivoluzionarie e reazionarie che cercavano di soffocare ogni manifestazione di solidarietà tra la rivolta studentesca e l’emancipazione delle masse.


Ciò che però si tralascia è la pars construens della poesia. In una certa misura, il responsabile è proprio Pasolini, poiché dal punto di vista comunicativo il testo pare mal strutturato, ma a ben leggere se ne intuisce il punto di vista che è, nella sostanza, gramsciano:


     Ma andate, piuttosto, pazzi, ad assalire Federazioni!

     Andate a invadere Cellule!
     andate ad occupare gli usci
     del Comitato Centrale: Andate, andate
     ad accamparvi in Via delle Botteghe Oscure!


Conquistate piuttosto l’apparato del potere, impadronitevi di quello, non picchiate i servi chiedendo «solo ciò / a cui avete diritto» – nel senso dei diritti borghesi – e dimenticando «l’unico strumento davvero pericoloso», ossia il partito comunista. Assalire e occupare non da teppisti che distruggono una sede del PCI, ma prendere possesso a livello istituzionale. Secondo Pasolini, le istituzioni costituiscono il vero cardine della società, sono tutt’altro che macchine anonime, antagoniste della vita: sono piuttosto i dispositivi attraverso cui gli esseri umani si impegnano a rendere possibile la vita della comunità. Questa è la lezione di Gramsci che il poeta fece propria. È necessario entrare nelle maglie del potere senza perdere la poesia, la potenza della vita e del desiderio. Farsi magistrati seri ma umani, docenti coraggiosi, politici che mantengono il contatto con la realtà, artisti che lavorano con sincerità, cittadini onesti. Non è il progetto utopico di un poeta, ma la sintesi del riformismo gramsciano, ed è la proposta contenuta nel PCI ai giovani.


Pare dunque che Pasolini avesse già intuito, nel 1968, l’essenza reazionaria dei movimenti di piazza, dei gruppi extra parlamentari, della strana e curiosa alleanza tra gruppi fascisti e gruppi che si dichiaravano comunisti: tutti a fare il gioco del potere contro il più grande partito comunista dell’Europa occidentale con azioni violente che, da lì a pochi anni, gli avrebbero fatto perdere il favore della gente.


     Spero che l’abbiate capito

     che fare del puritanesimo
     è un modo per impedirsi
     la noia di un’azione rivoluzionaria vera.


Noia fatta di un sostanziale cambio di mentalità, di lavoro quotidiano, di agire per un fine, nel tempo e senza fretta, come il cristianesimo dei primi secoli. Ma i vari movimenti non avevano idea di cosa implicasse ‘fare la rivoluzione’. Confondevano colpevolmente la ribellione con la rivoluzione. E, com’era chiaro a Pasolini, dietro quegli slanci di violenza si celava un pericolo maggiore: la virata verso l’individualismo, che distrugge alla base qualsiasi idea di società.


     [...] siete una nuova

     specie idealista di qualunquisti [...]


E ancora:


     come potrebbe concedersi

     un giovane operaio di occupare una fabbrica
     senza morire di fame dopo tre giorni?


Pasolini non si faceva illusioni, raggiungendo vertici di personale amarezza nel suo giudizio:


     Sì, i vostri orribili slogan vertono sempre

     sulla presa di potere.


Insomma, non si può dire che l’autore abbia nascosto la propria idea. I giovani figli di papà non cercavano la liberazione di tutti, ma libertà per sé stessi (gli esami svolti collettivamente, il 6 politico, ecc.), ci tenevano a rimarcare la differenza di classe e non intendevano condividere i privilegi di cui godevano. Per il poeta era innegabile la sostanziale differenza tra chi occupa una fabbrica per avere più diritti e chi occupa un’università allo scopo di passare più facilmente gli esami. A nessun rivoluzionario era mai venuto in mente di bloccare l’attività di una scuola. La scuola è la vera arma in mano ai rivoluzionari. A testimonianza di ciò, si approfondiscano le vite di assoluti ‘primi della classe’ come Marx, Luxemburg, Lenin, Gramsci, e quelle di (veri) rivoluzionari – persone del calibro di Malcom X e Ho Chi Minh, per cui l’istruzione rappresentò la più decisiva delle svolte –, sbandierati a quei tempi un po’ da tutti, ma evidentemente non compresi:


     una sola cosa gli studenti realmente conoscono:

     il moralismo del padre magistrato o professionista,

     il teppismo conformista del fratello maggiore

     (naturalmente avviato per la strada del padre),

     l’odio per la cultura che ha la loro madre, di origini

     contadine anche se già lontane.



*

Immagine di copertina: James Ensor, L’entrata di Cristo a Bruxelles nel 1889, 1888


23/05/2024

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