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Cadenze d’inganno

“LUI, LA SUA ARTE”.
NOTE SUL “SIMONE MARTINI”
DI MARIO LUZI

di Angelo Andreotti

Il Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini di Mario Luzi (1914-2005) non è soltanto il racconto in versi del ritorno dell’artista (in compagnia della moglie, il fratello, la cognata, le figlie e uno studente) a Siena da Avignone. Viaggio peraltro soltanto immaginato dal poeta, giacché il pittore morì ad Avignone nel 1344 senza aver mai fatto rientro nella città natale. Evidentemente i temi di Simone, l’amore per Siena, la sua convinta e profonda religiosità, fecero sì che nel pittore il poeta vedesse (o proiettasse) sé stesso. Infatti, a stesura non ancora ultimata, Luzi rilasciò a Paolo Di Stefano un’intervista nella quale dichiarò: «mi sono un po’ identificato in questa figura, anche perché abbiamo le stesse ascendenze senesi. Poi c’è Avignone, il realismo nascente di Giotto. Sono i temi miei, autobiografici» [1].

Una volta pubblicato il libro (Garzanti, Milano 1994 [2]), concesse un’intervista anche a Roberto Barbolini, dove l’affermazione è ancora più esplicita: «ho fatto di Simone, un po’, il mio alter ego» [3].


Qui ci soffermeremo su una delle nove sezioni del Viaggio terrestre e celeste, quella che più direttamente manifesta la poetica di Luzi – che in qualche modo è anche una sommessa teologia dell’arte, oltre che una convinta ontologia dell’esistente – raccontata attraverso le riflessioni di Simone immaginate dal poeta.

“Lui, la sua arte” (così s’intitola la sezione) inizia con un interrogativo: «Dove mi porti, mia arte? / in che remoto / deserto territorio / a un tratto mi sbalestri? // In che paradiso di salute, / di luce e libertà, / arte, per incantesimo mi scorti?». Sempre a Barbolini, che gli evidenzia proprio questi versi, Luzi risponde: «Credo succeda a tutti gli artisti: si liberano delle energie che sembrano non dominabili. C’è un confronto continuo tra la volontà consapevole, la strategia calcolata, e l’imponderabile che prende il sopravvento. Simone riflette su questo. E si domanda se l’arte gli ha rivelato, sul mondo, qualcosa di sostanziale, o soltanto di accidentale. L’artista sa di non poter fare altro da quello che fa, ma si domanda se questa è davvero una risposta all’essere, alla conoscenza». Il tema è importante. Al di là dell’intenzione e della coscienza di ciò che si sta dipingendo o scrivendo, succede all’artista e al poeta che qualcosa di non cercato accada, qualcosa di dipinto o scritto s’imponga in modo autonomo, al di fuori della volontà, in bilico tra casualità e necessità. Come se la mano, con pennello o penna che sia, seguisse una propria volontà rivelando strade e conoscenze che il pittore o il poeta non sapeva di poter percorrere. Al punto che la poesia continua così: «Mia? non è mia questa arte, / la pratico, la affino, / le apro le riserve / umane di dolore / divine me ne appresta / lei di ardore / e di contemplazione / nei cieli in cui m’inoltro…».


L’arte, dunque, viene intesa come un dono che, in quanto tale, non può essere una proprietà. Il dono è una concessione, richiede sacrificio e cura affinché sia ben meritato. E quanto viene donato è l’arte stessa: pittura e poesia, cioè strumenti in grado di penetrare a fondo l’umana condizione e che sono in qualche modo anche una dannazione: dannazione e salvezza, o maggior comprensione. Una luce che schiarisce e distingue.

Avrà un senso se, in quella antologia di versi (e prose) scelti da Luzi stesso col titolo azzeccatissimo di Autoritratto [4], data alle stampe due anni dopo la sua morte, l’unica poesia che documenta “Lui, la sua arte” è Infrapensieri la notte, come se essa rappresentasse meglio di altre la sezione. Ed è così: il passaggio dalla notte al giorno, dal buio alla luce, è metafora della creazione artistica, per lo meno di quella luziana, e il passaggio va dal colore che nel buio è indistinta materia (Sono oscuri / il turchese ed il carminio / nei vasi e nelle ciotole, / li prende / la notte nel suo grembo, / li accomuna a tutta la materia) ai colori che nella luce prendono anima (hanno / incerta come lui la sorte / i colori o il risveglio / per loro non è in forse, / la luce non li inganna, / non li tradisce?  E stanno / nella materia / o sono / nell’anima i colori? – / divaga / o entra nel vivo / la sua mente / nella pausa / della notte che comincia – / smarrisce / e ritrova i filamenti / dell’arte, della giornata...).


E la domanda sul dove stiano i colori – nella materia o nell’anima – passa con la poesia successiva al pittore, che rivela e condivide i dubbi del poeta:


     Arte, cosa m’illumina il tuo sguardo?

     la vita o la memoria

     della vita? i suoi lampi,

     la sua continuità?

     del sempiterno fiume l’alveo o il flusso?


Scegliere tra «il mutare o il permanere, / l’effimero o il durevole» (pochi versi dopo) è fuorviante: il fiume è insieme alveo e flusso. Non l’essere né l’apparire è compito dell’arte: bensì dare sostanza a ciò che si dipinge o si scrive.


Non c’è dubbio che la creazione artistica o poetica per Luzi sia pervasa dal mistero, inteso nel senso che ne dà Romano Guardini: «Un problema si deve risolvere e, una volta risolto, scompare. Il mistero invece deve essere sperimentato, venerato; deve entrare a far parte della nostra vita. Un mistero che possa essere chiarito, risolto con una spiegazione, non è mai stato tale. Il mistero autentico resiste alla spiegazione, non tanto perché si sottragga all’esame ricorrendo allo stratagemma di una doppia verità, quanto perché non può, per sua natura, venir spiegato, sciolto razionalmente» [5].


Nel Simone Martini, e particolarmente in questa sezione, Luzi si posiziona sull’orlo del terrestre che si affaccia al celeste, anzi, ne è l’oggetto e su esso riflette.


     Stelle alla prima apparizione

                                         esse, le immagini,

                                         non meno le parole.

                                                                             Sbocciano

     all’orlo in luce dell’estremo niente

     appena sopra il baratro

     della non conoscenza.


Poiché conoscenza è data in


     Un attimo

     di universa compresenza,

     di totale evidenza –

     entrano le cose

     nel pensiero che le pensa, entrano

     nel nome che le nomina,

     sfolgora la miracolosa coincidenza.

     In quell’attimo

     – oro e lapislazzulo –

     aiutami, Maria, t’inciderò

     per la tua gloria,

     per la gloria del cielo. Così sia.


Quindi trascendenza che si riflette sull’immanenza.


Maria è il legame tra i due mondi (come per Rilke lo furono gli Angeli), terrestre e celeste, e Luzi, figurandosi Simone mentre la dipinge, coglie l’occasione per rivelare, negli ultimissimi versi, il timore dell’artista, che è anche quello del poeta, un timore che si fa preghiera:


     Rimani dove sei, ti prego,

                              così come ti vedo.

     Non ritirarti da quella tua immagine,

     non involarti ai fermi

     lineamenti che ti ho dato

     io, solo per obbedienza.

     Non lasciare deserti i miei giardini

     d’azzurro, di turchese,

                 d’oro, di variopinte lacche,

     dove ti sei insediata

                                       e offerta alla pittura

                                       e all’adorazione,

     non farne una derelitta plaga,

              primavera da cui manchi,

     mancando così l’anima,

     il fuoco, lo spirito del mondo.

     Non fare che la mia opera

     ricada su se medesima,

                                       diventi vaniloquio, colpa.


Questi ultimi tre versi hanno il suono dell’implorazione, e rivelano il senso dell’opera di Luzi, il suo modo di interpretare la figura del poeta, la sua concezione di poesia intesa come strumento di conoscenza, esercizio di umiltà, non certo esaltazione narcisistica dell’Io.



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[1] Paolo Di Stefano, Mario Luzi. Dalle macerie, in attesa di rigenerazione, in «Corriere della Sera», 19 agosto 1993.

[2] Il testo integrale del Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini è stato ristampato nel secondo volume dell’edizione Garzanti di Tutte le poesie luziane (1998) e nel Meridiano Mondadori a cura di Stefano Verdino (L’opera poetica, 1998).

[3] Roberto Barbolini, Luzi della ribalta, in «Panorama», 8 aprile 1994.

[4] Mario Luzi, Autoritratto, Garzanti, Milano 2007.

[5] Traggo il brano di Guardini da Károly Kerényi, Nel labirinto (1968), a cura di Corrado Bologna, Boringhieri, Torino 1983, p. 31.


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Immagine di copertina: Simone Martini, Maestà (1312-1315)


01/03/2022

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