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Cadenze d’inganno

POESIA COME
RICERCA DI SENSO.
NOTE SU “PER IL GRAN MARE”
DI ROBAYNA

di Angelo Andreotti

Non è sempre vero che la poesia nasce dal dolore, ma è vero che con il dolore ha qualcosa a che fare, che sia palese o nascosto tra le pieghe di una ricerca di senso, esistenziale o civile, individuale o universale, non importa. Al punto che alla poesia, e in genere all’arte, si attribuiscono virtù terapeutiche. Che possano aiutare ad attraversare il dolore (per una morte una separazione un abbandono) in qualche caso magari sì, attenuano – per poco – le fitte e liberano un diverso rapporto con il mondo, ma certamente non annientano quel sano bisogno di non consegnare il ricordo della persona amata alla dimenticanza.


Secondo Friedrich Nietzsche «non c’è consolazione che giovi» nei confronti della morte, per la quale «l’uomo vede ora dappertutto soltanto l’atrocità o l’assurdità dell’essere», eppure «in questo estremo pericolo della volontà, si avvicina, come maga che salva e risana, l’arte» [1].

Per Salvatore Natoli, invece, le cose stanno diversamente, forse è soltanto una sfumatura, ma sostanziale: «È stato detto che l’arte nasce dal dolore e giunge all’uomo come consolazione: sarà anche vero, ma questa non è la sua unica dimensione. Casomai bisogna perfezionare la formula dicendo che l’arte intanto consola perché è capace di metterci in una diversa relazione col dolore permettendoci di guardarlo. Ed in tale visione appare il mondo nella sua interezza e nella sua ambiguità, come effettualità e come richiesta di senso»[2].


Mi pare che questo passo di Natoli ben s’attagli al libro di Andrés Sánchez Robayna, Per il gran mare (2019), a cura di Valerio Nardoni, pref. di Antonio Prete, Passigli, Bagno a Ripoli 2020. Di fatto un poema in 35 stanze; di fatto un canto meditativo per cercare di non soccombere al dolore per la perdita della donna amata.

Il titolo stesso, subito svelato dall’incipit dantesco (Paradiso, I, 109-114) – Nell’ordine ch’io dico sono accline / tutte nature, per diverse sorti, / più al principio loro e men vicine; / onde si muovono a diversi porti / per lo gran mare dell’essere, e ciascuna / con istinto a lei dato che là porti –, non va trascurato. E infatti non lo trascura Antonio Prete nella sua acuta prefazione, definendo i versi di Dante (ma, attenzione, è Beatrice che parla) come il preludio di «una meditazione poetica che dischiude un pensiero metaforico. Un pensiero che […] cerca di affacciarsi su quel fondo in cui l’esperienza del singolo, i suoi fantasmi, il suo vissuto, dialogano con l’esistenza che chiamiamo universale, la vita individuale con il bios che è respiro dell’essere», vedendo in questo l’azzardo «della vera poesia: tentare la soglia dell’inconoscibile attraverso la vita dell’immagine, fare del suono, e del ritmo, una casa che accoglie le forme del visibile» (p. 5).


Quella di Robayna è anche una meditazione sul tempo, sul ricordo che acquista spesso una dimensione onirica, oltre che mescolare passato e presente, fino a trovare una sorta di equilibrio non nel presente in cui si ricorda, ma nella presenza di ciò che è ricordato, e dunque farsi immagine (II, p. 17):


     Sotto le nuvole della casa avita,

     la mattina d’agosto, il pergolato,

     i grappoli pendenti dalla luce,

     io ero proprietà della presenza,

     passava il vento nella stanza bianca,

     il letto tratteneva ancora l’orma

     del corpo che nasceva all’alba chiara.


È un accostarsi fino ai bordi del ricordo, dove molto spesso risuonano i rintocchi delle campane definite anche un pezzo di durata svanito nell’eterno (III, p. 21). Quella ‘presenza’ che nega la possibilità di un ‘presente’ è la sostanza del ricordo, fuori dal tempo ma non per questo meno fulgido, come fosse non tanto un passato-presente ma il presente-passato (IV, p. 23):


     Ah, mattina notturna,

     si direbbe che è luce e tempio

     quell’agitarsi di campane ardenti

     nella mattina oscura come fuoco

     in una notte invincibile. E torno,

     mi aggiro lungo i bordi. E il ricordo

     mi porta fino a un luogo in cui ritorno

     non nel presente, ma nella presenza.

     Non sono gli occhi dell’infanzia, ora,

     quelli che guardano in me, sono quelli

     di un bambino rinato nel ricordo.


C’è un non so che di Yves Bonnefoy [3] – come del resto accenna, senza approfondire, anche Prete – in questo libro di Robayna, quasi una condivisione dello stesso mondo poetico (la morte e il ricordo, per esempio, che sempre s’incontrano nella poesia del francese) ma, soprattutto, il peso che entrambi riconoscono alla parola, il suo mistero, il suo cercarsi sporgendosi al di là dell’indicibile e, paradossalmente, la loro insufficienza e il loro limite [4].

Molte sono le poesie di Bonnefoy che meditano sulla ‘parola’, come questi non facili versi: Certi dicono, persi nel loro sogno, «un fiore», / Ma significa non sapere che le parole tagliano, / Se credono di designarlo, in quel che nominano, / Trasmutando ogni fiore in idea di fiore. // Tranciato il vero fiore diventa metafora, / Questa linfa che cola, è il tempo / Che finisce di liberarsi dal suo sogno [5].

Il limite della parola è la forza della parola stessa, come pare imporre Robayna (VII, p. 33):


     Dobbiamo fare nostre le parole

     che ci raggiungono come a ondate,

     senza capirle, ma lo stesso amandole,

     come se amare fosse già una forma

     del capire, come se le parole

     figgessero la carne e si fondessero

     in un essere solo con la nostra carne?


     Feci mie, così,

     parole che dicevano,

     come assorte,

     il mondo, ma senza che il mondo,

     indifferente, nulla,

     nulla che io potessi capire,

     desse risposta. E mi accorsi che il mondo

     poteva fare a meno di parole

     per essere. Ma dentro, nel suo intimo

     grumoso, nel più fondo, palpitava

     un nuovo essere, un nuovo mondo, un fuoco nuovo.


Tant’è che «Abbiam bisogno, dici, ti dici, di un linguaggio / per la nostra ignoranza, dato che siamo fatti / sia per il desiderio, sia anche per la morte, / ma non sappiamo nulla di morte e desiderio» (XV, p. 57). L’upupa – simbolicamente in grado di mettere in contatto il mondo dei vivi con quello dei morti – incontrata un pomeriggio, ferita, arrivato «come dall’altro lato / del reale [...] una favola / avvicinabile, davanti agli occhi / nell’incredulità, nell’impensabile», lo porta a nutrirsi dell’ignoranza, poiché l’upupa «volava nel più fondo / del non sapere, nell’ignoranza» (VI, pp. 27 e 29). L’ignoranza dell’ignoto, ossimoro che definisce in fondo l’esistenza, e magari si concretizza in un ricordo di un aprile crudele del 1976 che improvvisamente diventa tempo dell’adesso (XI, pp. 41 e 42):


     Ascolta il vento che improvviso

     strappa il riverbero dell’apparenza,

     attraverso la sera, che rivela

     il fondamento e che distesse il tempo,

     è l’ignoto che penetra d’un tratto

     nell’adesso e lo schiude

     e ci cadiamo dentro come a un fosso

     di silenzio e di quiete, nella pietà

     del tempo, mentre piove, e noi vediamo

     l’acqua colpire i sampietrini,

     ondularsi le tende sotto il vento

     e l’istante abbandonarsi alla cenere.


Quel ‘distessere’, verbo inusuale, ma eccezionalmente efficace nell’essere affiancato al tempo, fa del tempo ricordo.

Ricordo struggente per quanto effimero, che nella poesia successiva (XII, pp. 45 e 47) ha versi che uniscono il dolore alla dolcezza tra i rintocchi delle campane, «davanti a una tomba» dove «vorrai sapere, / perché sapere è quanto / chiede il nostro / desiderio, e piangerai, quando amore e dolore / sono una cosa sola», e anni dopo «ricorderai / i giorni del passato, / le sue spalle / e le sue risa, / e te stesso nei suoi occhi / che ti guardano, / il suo nome / dietro le tre rose / tutti i nomi e i vocaboli / dietro il suo nome, / e ti domanderai / per tutto quanto / è stato e sarà [...]». Ma in un sogno la presenza si fa ardente fino all’arrivo del nuovo giorno (XX, pp. 71 e 73):


     Ritorni ai miei occhi, alle mie mani,

     il sogno si dischiude alla presenza,

     nulla si è rotto, raggiungo i tuoi occhi

     che mi contengono, ed ancora te

     la catena dell’essere mi intreccia senza limiti,

     le onde laggiù in fondo ricominciano anch’esse

     senza fine, di nuovo spunta l’alba,

     e un’altra volta tutto si apre, suona

     la ghiaia, il sole vive, il cielo gira.


Un viaggio nel tempo o, meglio ancora, nella pietà del tempo che mischia e a volte confonde il passato con il presente, che fa del passato una presenza che trova gioia nel dolore. A questo punto, per evitare di essere una patetica lamentazione individuale, la poesia deve trovare il modo che il singolare dialoghi con l’universale: «Se nel dolore non si intrecciassero in modo indissolubile, seppur enigmatico, l’individuale ed il totale, mai esso giungerebbe alla parola: la sofferenza rimarrebbe l’esperienza muta che è. Solo il riverbero di universale, che è presente in ogni esperienza individuale di dolore, permette a chi soffre di comunicarlo e a chi guarda di presentirlo e di riconoscerlo» [6]. Dunque linguaggio che nella poesia si fa lingua universale.

Tuttavia, nessuna salvezza e nessun risanamento: l’arte, la poesia, non è una maga. Al massimo induce a pensare al di fuori di sé stessi, a forzare il cerchio che ci stringe al dolore, a cambiare il nostro sguardo sul mondo, sull’enigma dell’esistenza, cercando quel senso che trova senso nell’essere cercato (XXXV, p. 109):


     Guardo il sole sulle acque che scintillano,

     la schiuma sciolta nell’azzurro esteso,

     la circonvoluzione delle nubi d’autunno,

     il mare da cui veniamo e a cui torniamo.



*

[1] Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia greca (1872), versione di Sossio Giametta, Adelphi, Milano 2004, pp. 55-56.

[2] Salvatore Natoli, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli, Milano 2008, pp.169-170.

[3] Mi riferisco non soltanto alla pratica della traduzione e alle riflessioni teoriche sulla stessa, ma anche alla costruzione poetica e ad alcuni temi che, per esempio, se proprio non toccano senz’altro sfiorano in questo poema quelli di Bonnefoy in Nell’inganno della soglia (1975), il Saggiatore, Milano 2021, e Le assi curve (2001), Mondadori, Milano 2007, entrambi tradotti da Fabio Scotto.

[4] Tema questo molto presente nel Bonnefoy del primo libro della nota precedente.

[5] Yves Bonnefoy, L’ora presente (2011), trad. it. Fabio Scoto, Mondadori, Milano 2013, p. 15.

[6] S. Natoli, op. cit., p. 9.


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Immagine di copertina: Giulio Aristide Sartorio, La Sirena, 1893


18/11/2021

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