top of page

Cadenze d’inganno

RITI E “COME SE”.
SUL NUOVO LIBRO
DI DUCCIO DEMETRIO

di Angelo Andreotti

Libro dopo libro Duccio Demetrio (già Ordinario di Filosofia dell’Educazione a Milano-Bicocca, nonché fondatore e direttore della Libera Università dell’Autobiografia e dell’Accademia del Silenzio di Anghiari) snocciola temi in assoluta controtendenza rispetto all’andamento frenetico e volatile – ma non per questo innocuo e innocente – della nostra contemporaneità. Per tanto non può sorprendere il titolo della sua nuova pubblicazione (All’antica. Una maniera di esistere, Raffaello Cortina, Milano 2021), anche questa scritta come fosse un’autobiografia da intendersi come coscienza del vivere, ma anche protesa alla riscoperta e alla valorizzazione di atteggiamenti e modi di vita considerati desueti, oppure comportamenti ritenuti perdenti come fu per la timidezza in La vita schiva [1] dove, non a caso, la timidezza viene definita una ‘maniera di essere’. Anche lì, come nell’ultimo libro e in fondo in quasi tutti i suoi libri [2], Demetrio prende in esame modi di vivere bollati dalla vulgata come negativi mostrandone invece le virtù. Lo fa esponendosi in una scrittura che non abbandona mai il Sé autoriale, e anche quando pare allontanarsene in realtà lo fa mantenendo un legame stretto con il proprio vissuto, materia prima del suo argomentare, che porta necessariamente il lettore a percorrere le pagine facendole specchiare con la sua stessa esperienza. 

Come a dire che, maieuticamente, l’approccio (garbatamente) autobiografico dell’autore provoca la riflessione autobiografica nel lettore.


Così è che, fin dalle prime pagine del libro, mi sono trovato a ricordare alcune circostanze di vita quotidiana vissute in prima persona, che mi hanno sorpreso ma non avrebbero dovuto. Parlo di sorpresa di fronte a ‘gentilezze’ che avrebbero meritato piuttosto apprezzamento e gratitudine, non meraviglia. A titolo esemplificativo ne racconto una per tutte.


Stavo camminando sul marciapiede di una stretta via della mia città quando, in contromano, mi accorsi che una bambina sui quattro o cinque anni stava percorrendo in bicicletta il mio stesso marciapiede. Siccome anche il marciapiede era angusto mi fermai e feci spazio alla bimba che, con un andamento da prime pedalate, non mi dava certezze sulla padronanza delle sue intenzioni. Mi era già successo altre volte: strade strette con dehors che le restringono ancora di più, e in certe ore anche un discreto traffico di furgoni per i rifornimenti agli esercizi commerciali, niente di più sicuro per i piccoli ciclisti che il rifugio sul marciapiede. Quello che non è comune è ciò che seguì, vale a dire che la bambina – che aveva lo sguardo acceso dall’ebbrezza delle sue prime autonome pedalate, però preoccupato per dover scansare oggetti ingombranti come il sottoscritto – incrociandomi trovò il modo di mostrarmi un sorriso contrito quanto stupendo dicendomi: «Mi scusi... grazie signore», al quale quasi senza accorgermene risposi: «Di nulla bambina».

Ecco, perché avrei dovuto meravigliarmi di fronte a una richiesta di scuse del tutto in fin dei conti dovute? Ma la meraviglia riguarda anche la mia risposta. In altre occasioni, quando ho incrociato pargoli in bicicletta sui marciapiedi (anche adulti o adolescenti a piedi e a ventaglio senza alcuna intenzione di sciogliere la formazione, come fossi invisibile) mi sono semplicemente spostato, a volte silenziosamente, altre rumorosamente, altre ancora imprecando. Con quella bambina è stato diverso. Il suo fair play ha provocato il mio, compiaciuto e meravigliato malgrado l’uso improprio del marciapiede.

Il dare del ‘lei’ a uno sconosciuto, appellarlo ‘signore’ (quando mai!), chiedere scusa per un’azione scorretta nei confronti di un’altra persona, e insomma essere gentili non è cosa di questi tempi. Al punto che meraviglia, tanto è raro e inaspettato: «Mi scusi... grazie signore» è espressione all’antica, pronunciata da una bambina che rassicura sul sentirsi considerate ancora persone, non paracarri o fastidiosi ostacoli da abbattere.


Per dire che il libro di Demetrio potrebbe essere considerato come un elogio a tutti quei comportamenti, quelle maniere di esistere ormai in disuso, e perciò all’antica, che non riteniamo più necessari al vivere sociale, alla gestione delle nostre relazioni.

Corrispondono a quella scomparsa dei riti di cui parla in un suo recentissimo libro il filosofo Byung-Chul Han, indicandone pure le conseguenze, che inizia la sua prosa elementare e a tratti spiazzante e quasi pop, seppur colta ed efficace, con questo incipit: «I riti sono azioni simboliche. Tramandano quei valori e quegli ordinamenti che sorreggono una comunità. Creano una comunità senza comunicazione, mentre oggi domina una comunicazione senza comunità» [3]. E poco più in là: «Sono le forme rituali che, come la cortesia, rendono possibile non solo un bel rapporto interpersonale, ma anche un bel rapporto delicato con le cose» [4]. Sì, anche con le cose, tant’è che a questo rapporto Demetrio dedica alcune pagine del suo libro (p.e. pp. 129-133) nelle quali, ma non solo, trova spazio la sensibilità ironica e antiretorica di Guido Gozzano che, qualche anno prima della prematura morte, trova in Scipio Slataper [5] il critico che finalmente gli riconosce la distanza dalle poetiche ottocentesche, e contestualmente il suo valore innovativo, pur assegnandogli il 1850 come la sua epoca, aggiungendo un enigmatico ‘forse’ che, come vedremo, appartiene al carattere ipotetico e dubitativo del come se.


Il libro di Demetrio si apre con un aneddoto che introduce un’espressione che mi ha perseguitato poi per tutta la lettura, e che a mio avviso è la chiave di tutto.

L’autore racconta del suo professore di Storia che alla prima lezione esordisce con la celebre frase: La Storia non si fa con i se. Frase che non mi ha mai convinto del tutto, pur avendo avuto tra i suoi sostenitori personalità del calibro di Benedetto Croce, tant’è che qualche punto l’ha perso grazie alla rivalutazione del pensiero ipotetico per esempio della scuola francese (delle Annales, portatrice di una vera e propria rivoluzione epistemologica in campo storiografico) e soprattutto di Fernand Braudel, che peraltro introdusse il concetto di lunga durata, concetto che si annida all’interno dell’idea di ‘antico’ di Demetrio (pp. 198-204).

Non è certo la frase/proverbio citata dal professore a colpirmi, piuttosto lo è la successiva domanda del giovanissimo futuro filosofo dell’educazione: Ma nemmeno con i come se?

Domanda apparentemente incongrua, ma in realtà abbastanza visionaria visto che nel 1911 (ma guarda il caso, lo stesso anno dell’articolo di Slataper...) il filosofo neokantiano Hans Vaihinger pubblicò un libro che all’epoca ebbe un discreto successo, Philosophie des Als Ob, ma che nella traduzione italiana suona Filosofia del ‘come se’ [6], uscita nel 1967 e quindi quando Demetrio era già all’Università.

Tuttavia l’uso che nel corso del suo libro ne fa il nostro autore del come se ha ben poco a che spartire con la categoria di Vaihinger, anzi, è proprio agli antipodi: mentre il tedesco l’appoggia alla finzione, intesa come realtà inaccertabile e addirittura in contraddizione con la realtà [7], il nostro la riferisce all’autobiografia, che finzione non è [8].

Inoltre, il come se di Demetrio non ha le caratteristiche della categoria, è più leggero e dinamico per quanto non meno definito e importante per la sua argomentazione. Semmai è più che altro atteggiamento, abito mentale, ambiente spirituale, postura.

In questo senso è anche esercizio propedeutico a quell’autobiografia che, grazie a esso, si fa pratica esistenziale, attenzione e cura, forse anche moto empatico del nostro essere qui e ora con quella persona che siamo stati ‘come fosse un altro’, per richiamare un bel libro di Paul Ricœur [9]. Lavoro mnemonico e non creativo, ma immaginativo sì.


Il come se di Demetrio lavora sui ricordi – c’è un intero paragrafo in cui troneggiano la ricordanza e la rimembranza di Leopardi (pp. 208-215) – non sulla finzione, e allora si tratta di vivere il passato come se fosse ora, o ciò che di reale di quel passato ci sembra. Il fatto di esemplificare le sue posizioni utilizzando poeti, scrittori e pittori (oltre che filosofi) non è una contraddizione. I testi scelti e le immagini, o hanno un carattere autobiografico manifesto, o sono la trasfigurazione di un’emergenza autobiografica anche esperita nel momento in cui si fa respiro, voce e infine parola, oppure ancora si legano autobiograficamente a Demetrio stesso. D’altra parte lui stesso considera ‘trasfigurante’ come l’«aggettivo appropriato per meglio intendere il ‘come se’» (p. 139), e il come se è diventato per me condizione imprescindibile per delineare cosa sia quel All’antica dal tono esortativo e quanto mai coraggioso, quasi démodé al punto da rischiare il malinteso. Tant’è che, nel corso del libro, l’argomentazione dell’autore continua ad assestare piccoli (ma robusti) colpi al concetto per allontanarlo dall’approccio sbrigativo che più l’assomiglia al vecchio, che pur ha la sua funzione come quella, nel confronto, di mettere in risalto i veri e valoriali significati di ‘antico’.

Per esempio: «L’antico non è tornare indietro, è legame del presente con il passato, anche storico, che possa arricchire il primo. L’antico a volte contribuisce a rimettere in azione il presente, quando questo altro non fa che ripetere all’infinito sempre uguali rituali, linguaggi, inganni» (p. 68).

L’antico non è quindi vivere (in) un altro tempo, ma un legame del tempo presente con il tempo passato per vivere consapevolmente il presente, oltre che a dare un senso al passato.

Lo sguardo al nostro passato, del quale conosciamo il suo futuro avendolo vissuto almeno fino a qui, è uno sguardo compassionevole in quanto non più imprigionato dal magma del presente. Certo, possono rimanere ancora vivi i rancori ma questi, se osservati dalla giusta distanza e con giusto atteggiamento, attenuano i loro toni, e il buio è meno buio perché, grazie a quelli, in virtù di quella svolta ‘forzata’ (certo dolorosa, forse pure devastante e insopportabile) è successo dell’altro. In definitiva l’antico non è fuga dal presente, bensì sua coscienza. Dal futuro del passato noi riconosciamo il valore del nuovo sentiero che stiamo percorrendo, che perderemmo se appoggiassimo il nostro vivere a quel male interpretato carpe diem poiché «Il presente non coincide con l’istantaneità, ma ha spessore, profondità, paradossalmente durata» [10].


Il come se è così quel dispositivo in grado di trasformare l’immaginazione in strumento ermeneutico che opera sulla memoria, e quindi: «Come pratica di memoria che pone domande tanto ai ricordi quanto al non vissuto, al non accaduto. L’antico ha bisogno delle nostre parole, di voci che lo raccontino e se facciamo pagine e libri, non di fantasie ma di interrogazioni rispetto a quanto non è avvenuto, che è parte importante di noi da includere e argomentare nella nostra scrittura» (p. 243).

Ecco, il non accaduto della nostra vita, che è un susseguirsi di scelte obbligate e scelte libere, la cui messa in gioco contempla anche tutti i sinonimi del come se individuati da Demetrio, dei «forse, chissà, può darsi, e di innumerevoli dubbi» (p. 16) così salutari per la nostra mente e le nostre emozioni. E insomma di scelte che, nel momento in cui accadono, non conoscono quel futuro che per noi, ora, è il passato. Soltanto ri-guardando i punti cruciali, i crocevia, le svolte e i cambiamenti obbligati o sbagliati del vivere che, nel momento in cui li abbiamo vissuti, ci sono apparsi violenti e crudeli, brutali e incomprensibili, nonché dolorosi e definitivi, ecco che dal loro futuro che è il nostro presente possono mostrare un volto differente, e ciò che abbiamo vissuto come perdita, abbandono, fallimento, precipitosa caduta, in realtà era una porta che ha aperto altre strade dalle quali, una volta accettate e accolte, hanno portato la grazia di sconosciuti doni.


Penso che se una poesia può raccogliere il significato di All’antica inteso da Demetrio, questa non può che essere Gli imbianchini sono pittori di Attilio Bertolucci:


     Arrivò prima il figlio, in quell’ora

     lucente dopo il pasto il sole e il vino,

     eppure silenziosa, tanto che

     si sentiva il pennello sul muro

     distendere il celeste. Non guardava

     fuori, la sua giovinezza

     e salute gli bastava, attento

     alla precisione dei bordi turchini

     entro cui asciugando già l’azzurro

     scoloriva com’era giusto. Allora

     venne il padre che recava uno stampo,

     il verde il rosso e il rosa,

     e la stanchezza degli anni e il pallore.

     Doveva su quel cielo preparato

     con cura far fiorire le rose,

     ma il verde stemperato per le foglie

     non gli andava, non era un verde quale

     ai suoi occhi deboli brillava all’esterno

     con disperata intensità appressandosi

     la sera che si porta via i colori.

     Le corolle vermiglie ombrate in rosa

     fiorirono più tardi la stanza,

     una qua una là, accordate

     alle ultime dell’orto, e il buio,

     fuori e dentro, compì un giorno

     non inutile che lascia a chi verrà,

     e dormirà e si sveglierà fra questi

     muri, la gioia delle rose e del cielo. [11]



*

[1] Duccio Demetrio, La vita schiva. Il sentimento e le virtù della timidezza, Raffaello Cortina, Milano 2007.

[2] Per fare soltanto qualche esempio, lo è stato per la vita interiore per lo più ignorata dalla parte ‘virile’ del mondo in L’interiorità maschile. Le solitudini degli uomini, Raffaello Cortina, Milano 2010, oppure l’immaturità in Elogio dell’immaturità. Poetica dell’età irraggiungibile, Raffaello Cortina, Milano 1998.

[3] Byung-Chul Han, La scomparsa dei riti. Una topologia del presente (ed. or. 2019), trad. it. Simone Aglan-Buttazzi, nottetempo, Milano 2021, p. 11.

[4] Ivi, p. 14.

[5] Scipio Slataper, Perplessità crepuscolare (a proposito di G. Gozzano), in «La Voce», a. III, n. 46, 16 novembre 1911. Non così favorevolmente si era espresso nella stessa rivista il 5 ottobre dello stesso anno.

[6] Hans Vaihinger, Filosofia del ‘come se’: sistema delle finzioni scientifiche, etico-pratiche e religiose del genere umano (ed. or. 1911), trad. it. Franco Voltaggio, Ubaldini, Roma 1967.

[7] Un esempio per tutti potrebbero essere i romanzi di Philippe Dick come L’uomo nell’alto castello (ed. or. 1962), a cura di Carlo Piagetti, Fanucci, Roma 2001 [in altre edizioni, e nella serie televisiva, il titolo è La svastica sul sole].

[8] Cfr. Philippe Lejeune, Il patto autobiografico (ed. or. 1975), trad. it. Franca Santini, il Mulino, Bologna 1986.

[9] Paul Ricœur, Sé come un altro (ed. or. 1990), a cura di Daniella Iannotta, Jaca Book, Milano, 1993.

[10] Salvatore Natoli, Stare al mondo. Escursioni nel tempo presente, Feltrinelli, Milano 2008 (I ed. 2002), p. 13.

[11] Attilio Bertolucci, Viaggio d’inverno, Garzanti, Milano 1971.


**

Immagine di copertina: Egon Schiele, Se stesso II (Morte e Uomo), 1911


11/05/2021

bottom of page