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OSIP MANDEL’ŠTAM
Poesie scelte

***


Sopra lo smalto di un pallido azzurro –

smalto che nel pensiero evoca aprile –

sollevano i rami le betulle

e impercettibile è il loro imbrunire.


Perfetto, sottilissimo ricamo,

si rapprende laggiù un fine reticolo,

come su un piatto, su una porcellana

un disegno nitido e squisito –


quando la mano del gentile artista

lo traccia sulla vitrea superficie,

conscio dell’energia di un momento

e incurante della triste morte.


1909



***


Insonnia. Vele tese. Omero.

Ho letto fino a metà la lista delle navi:

stormo di cicogne, lunga covata,

che un tempo sull’Ellade s’è levata.


Come in confini stranieri cicogne incuneate,

divina spuma sul capo di sovrani, verso dove navigate?

Se non fosse per Elena, v’importerebbe forse qualcosa

della sola Ilio, o viri achei?


E il mare, e Omero: tutto è mosso dall’amore.

A chi prestare ascolto? Ed ecco tace Omero,

e rigonfiandosi ondeggia il mare nero

e s’appressa al capezzale con greve fragore.


1915



***


Mi lavavo all’aperto ch’era notte;

di grezze stelle ardeva il firmamento.

Il loro raggio è sale a fior d’ascia; la botte

colma, orli rasi, ghiaccia e si rapprende.


La porta del cortile è ben sprangata;

dura è la terra, secondo coscienza.

Rintraccerai a stento più puro ordito della

verità d’una tela di bucato.


Si disfa come sale, nella botte, una stella;

più buia è l’acqua gelida, più pura

la morte, più salata la sventura,

ed è più onesta e paurosa la terra.


1921



***


Non farne parola a nessuno,

dimentica ciò che hai veduto:

uccello, vecchietta, prigione

e qualunque altra cosa – tutto!


Se no, ti sentirai avvolgere,

appena schiudi le labbra,

da un tremito di aghifoglie

allo spuntare dell’alba.


Ricorderai la dacia, la vespa,

l’astuccio sporco d’inchiostro

o i mirtilli che mai raccogliesti

da bambino nel sottobosco.


Ottobre 1930



***


Son tornato nella città che conosco fino alle lacrime,

fino alle venuzze, alle gonfie ghiandole dell’infanzia.


Sei tornato – e alla svelta manda già l’olio di merluzzo

dei lampioni riflessi nelle acque di Leningrado.


Riconosci alla svelta dicembre e il suo breve giorno,

in cui alla lugubre pece è mischiato giallo di tuorlo.


Pietroburgo, non voglio morire – non adesso:

dei miei numeri di telefono tu sei in possesso.


Pietroburgo, su di me gli indirizzi io porto

che mi faranno trovare le voci dei morti.


Alloggio sulla scala di servizio, e alla tempia

mi colpisce il suono del campanello strappato via con la carne.


E mentre di cari ospiti sto in attesa per tutta la notte,

muovo come ceppi di galeotto la catenella alla porta.


Dicembre 1930



***


Stiamocene un po’ in cucina assieme,

l’aria è dolce di bianco cherosene;


un coltello tagliente e una pagnotta...

Se vuoi, prepara ben bene il fornello;


altrimenti raduna e intreccia corde:

prima dell’alba fa’ una grande sporta:


fuggiamo a una stazione, ad un binario

dove nessuno ci possa trovare.


Gennaio 1931



Ariosto


In Europa fa freddo. In Italia è scuro.

Il potere è ripugnante come le mani del barbiere.

Oh, si potesse spalancare quanto prima

sull’Adriatico un’ampia finestra.


Sulla rosa muschiata un ronzio d’ape,

nella steppa a mezzogiorno la cavalletta muscolosa.

Pesano i ferri di cavallo alato,

la clessidra è color giallo e oro.


Nella lingua delle cicale un’ammaliante miscela

di puškiniana tristezza e mediterranea boria,

come edera molesta, che tutta si aggrappa,

lui mente spavaldo, e si sfrena con Orlando.


Gialla e oro la clessidra,

nella steppa a mezzogiorno la cavalletta muscolosa –

vola dritto sulla luna il contaballe dalle larghe spalle...


Ariosto cortese, volpe d’ambasciata,

felce fiorente, veliero, aloe,

sulla luna sentivi le voci degli zigoli,

e alla corte dei pesci eri consigliere scientifico.


Oh, città di lucertole, città senz’anima, –

Ferrara arida, da una strega e un giudice

figli così hai partorito, e alla catena li hai tenuti,

e in questo deserto il sole è sorto di un fulvo intelletto.


Ci stupiamo della bottega del macellaio,

del bimbo assopito in una rete di mosche azzurre,

dell’agnello nel cortile, del monaco sull’asino,


dei soldati del duca, un po’ invasati

per il vino, la peste, l’aglio, –

e della perdita ci stupiamo, fresca come l’alba...


Maggio 1933 – giugno 1935



***


Quando, una volta distrutto l’abbozzo,

con zelo tieni saldo nella mente

un periodo netto, senza glosse,

stagliato nell’oscurità che hai dentro,

e lui, strizzando gli occhi, si tien saldo

nella trazione del suo impulso vero,

ecco, lui sta esattamente alla carta

come una cupola sta ai vuoti cieli.


Novembre 1933 – gennaio 1934



***


E il ramo a frastagli dell’acero

si bagna in angoli curvi,

e screziate farfalle si lasciano

trasporre in disegni sui muri.

Ci sono moschee ben vive,

e forse – l’ho appena intuito –

noi siamo un’Hagia Sophia

dal numero d’occhi infinito.


Novembre 1933 – gennaio 1934



***


Le tue gracili spalle si arrosseranno sotto fruste e flagelli,

si arrosseranno sotto fruste e flagelli, bruceranno nel gelo.


Le tue mani infantili alzeranno pesanti ferri da stiro,

alzeranno pesanti ferri da stiro, e legheranno spaghi e fili.


I tuoi teneri piedi cammineranno sul vetro scalzi,

cammineranno sul vetro scalzi, e nella rena fra rosse chiazze...


E io per te brucerò come una candela color pece,

brucerò come una candela, e non oserò dir preghiere.


1934



***


Su orti cospicui me ne sto insediato.

Per Van’ka l’intendente sarebbe qui una pacchia.

Nelle fabbriche il vento serve gratis,

e fugge via il sentiero di melma e sterpi a fasci.


La notte gela, neroarata, ai margini

della steppa fra guizzi di perline.

Su e giù nei suoi stivali russi il padrone marcia

di là dalla parete, con un’ombra di stizza.


E il pavimento ha una copiosa gobba –

ponte di nave, coperchio di bara.

Mi è, presso estranei, difficile il sonno,

e la mia stessa vita più non mi ama.


Aprile 1935

Osip Emil’evič Mandel’štam (Varsavia 1891 – Vladivostok 1938) fa parte di una generazione di scrittori in lingua russa che costituisce quasi un unicum nella storia della letteratura mondiale per la schiera di astri intramontabili che ha generato: Anna Achmatova, Marina Cvetaeva, Boris Pasternak, Velimir Chelbnikov, Sergéj Esénin, per citarne solo alcuni. In mezzo a loro Mandel’štam si staglia fin dall’inizio con naturale autorevolezza come la voce di spicco, come un talento ineguagliabile di quelli che in ogni secolo si contano sulle dita di una mano. E il regime staliniano ben vede questo suo potenziale, lo arresta una prima volta nel 1934 e in seguito, dopo più di tre anni di esilio a Voronež, lo invia in Siberia, dove muore di stenti in un lager di transito nei pressi di Vladivostok.



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Testi selezionati da Ottanta poesie (trad. di R. Faccani, Einaudi, 2009), L’opera in versi (trad. di G. Zappi, Giometti & Antonello, 2018) e Quaderni di Mosca (trad. di P. Napolitano e R. Raskina, Einaudi, 2021)

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