
Parallasse
MANDEL’ŠTAM.
EPIFANIA DEL TEMPO
di Neil Novello
«Il Tempo è uno stato»
Andrej Tarkovskij
Corrono circa quarant’anni tra la morte di Osip Mandel’štam, il 27 dicembre 1938 presso il campo di Vtoraja Rečka, un Lager di transito presso Vladivostok, e Il figlio della civiltà di Iosif Brodskij, un luogo memoriale in cui l’autore di Fuga da Bisanzio ritorna sull’eredità culturale del poeta di Varsavia. Scrivendo della «forza rivelatrice di quattro versi di una lirica» di Mandel’štam, Brodskij già gravita in una terra originaria. Essa si rivela nei Versi sul soldato ignoto, in una quartina che trascende il dettato tradizionale e testimonia l’esito di un occulto e ancora enigmatico processo mentale:
Un disordine arabo, un imbroglio,
la luce di velocità affilate entro un fascio
e con le sue oblique suole di raggio
mi sta in equilibrio sulla retina...
La forma poetica, la forma letteraria, e una seconda forma, quella appunto mentale, identificano in Mandel’štam il congegno stesso di un miracolo. Nei «quattro versi» del poeta vittima delle purghe staliniane, Brodskij enuclea l’alfabeto di una formula. Qui è disvelata la sopraffina combinazione che cela l’esistenza di un mistero. E così, confessando che in tale luogo poetico la «grammatica quasi non esiste», la rivelazione del segreto, ciò che invece veramente esiste, in Mandel’štam procede anzitutto da una non qualificabile ma vertiginosa «accelerazione psichica». Essa semplicemente accade, innescata da una rapinosa visione al di là di cui la poesia si autotestimonia come un luminoso residuo, un non-so-che, lacerto, sintesi o impronta, la cui memoria, confessa il poeta, «mi sta in equilibrio sulla retina». La poesia è dunque il balenio scritto di una traccia evanescente, predestinata a non essere, e per questo afferrata, catturata contro la sua sparizione.
La vertigine sta dunque in un prodigio, nel ricordo raccolto da una rimanenza, nella calcificazione poetica di una precaria, fulminante latenza fenomenica. Ad agire entro il rango del possibile in poesia, non è la memoria profonda di un poeta visionario, è la trasfigurata rinascenza di un’agonia. Ciò perché la poesia eredita proprio quel che resta al di là di un richiamo, quasi la fortunosa, liberatoria estrazione della parola da una scena inabissata nella fine. Sfuggente, dunque, come un sogno perduto al sognatore, la visione, l’effetto terminale di realtà, si dona irriducibilmente nella forma del frammento minimo, nella sua sostanza molecolare. «Vedo un sogno minaccioso, gli istanti / sfrecciano via uno dietro l’altro» (Oggi è un giorno infausto) si legge in La pietra (1913). L’empito oculare vale una traque all’indistinto polverio del reale.
Nella Conversazione su Dante Mandel’štam richiama un’enigmatica categoria, la «metafora eraclitea». Il poeta espone dunque una potenza propria alla poesia dantesca. Qui il poeta parla di quella «transitorietà di un fenomeno», che proprio Brodskij indicherà al pari di una scena-madre, la primaria della poesia di Mandel’štam, evocata appunto dall’esigenza di opporvi un’«accelerazione psichica», un inarrestabile precipitato mentale teso alla cattura, e la cui evidenza scritta è disoccultata poi nel retablo della forma poetica.
Proprio a inizio di Conversazione, al lettore della Commedia Mandel’štam suggerisce di guardare a una superficie speculare, a quel riflesso, proprio dell’opera, tra l’atto critico dantesco e il senso autocritico il cui valore finale è una forma di autointerpretazione. In Mandel’štam rivive qui l’estatica coscienza di ritrovarsi in un familiare luogo dell’anima. Se il suo pensiero gravita intorno alla natura del «discorso poetico», il riconoscimento di una sua distillata essenza chiarisce la cogenza tra l’innesco dell’immaginario poetante e la parola poetica scritta. Per Mandel’štam, in tale luogo, si colloca un «campo d’azione nuovo». La sua cifra esemplare espone la transitorietà fugace del fenomeno e appunto la necessità di una prodigiosa «accelerazione psichica», un empito vocato perentoriamente a fissarla in realtà versale. Così nel secondo manifesto dell’acmeismo, firmato da Gumilëv, la realtà del fenomeno è richiamata nel suo «valore intrinseco». Ecco allora che la parola poetica, ripensata nel suo aspro ritorno a un inizio originario, nei termini teorici di Mandel’štam equivale a una «rappresentazione verbale». Essa è interpretata, così recita Sulla natura della parola, come una «forma chiusa». È una concezione antisimbolista in cui si avverte la riconciliante tensione di verba e res, di una parola poetica, già postsimbolista, che faticosamente ritorna proprio alla realtà fenomenica, così alla sua inseità come al suo acme.
Poeta del mattino, Mandel’štam, in poesia, innesca strutture di risveglio. Ancora nella Conversazione, non per nulla scrive che le «qualità della poesia sono la rapidità e la risolutezza», alludendo in questo all’attitudine immaginaria, perentoria e fulminante, di catturare l’effetto reale, non figure o immagini pure, non sequenze di eventi o fabule narrative, ma lembi e stralci, lacerti molecolari di creato. Nella poesia di Mandel’štam si tratta di afferrare, di carpire prensilmente l’apparentemente impalpabile, l’equivalente versale della pindarica «ombra di un sogno». Ancora a proposito di Dante, e ancora della pagina più autotelica della Conversazione, nel gioco di echi e rifrazioni tra poeta e poeta, scrivendo di Dante Mandel’štam sembra scrivere di sé stesso: «La sua lapidarietà altro non è che il prodotto di un enorme squilibrio interiore che ha trovato una via d'uscita nei supplizi onirici, negli incontri immaginari [...]».
La relazione causale che esplica lo stato di «squilibrio interiore» generando così i cosiddetti «incontri immaginari», in altre parole la materia ritenuta da poesia, in Mandel’štam rivela un dominante tratto poietico. Esso riguarda dunque nientemeno che l’atto di creazione. Alludere a uno stile lapidario in Dante, per il poeta significa decostruire la fenomenologia della visione attraverso l’evocazione immaginaria. E l’impulso evocante, in sé, è lapidario nella misura del suo epigrafismo addirittura brachilogico, nella sua attitudine a connotarsi come figurazione scritta di un istante eterno. Qui lo spazio creativo unisce, anzi sutura proprio la vitale diade dell'atto di creazione, la transizione dalla costellazione del contenuto prepoetico alla forma, cioè la parola estratta dal magma visionario e resa finalmente cristallo poetico. Ma in Mandel’štam, che nello specchio elettivo e anamorfico di Dante ritrae il balenio della propria immagine di poeta naturale, sembra dunque attuarsi qualcosa di paragonabile a una scrittura automatica. Anzi nella messa in poesia si annuncia la reiterazione di una tecnica agita quasi in maniera involontaria. Con le parole di Pasolini in Descrizioni di descrizioni, l’esito poetico in Mandel’štam sembra procedere dall’«automatismo di un sogno». Come per il poeta della Commedia, così per Mandel’štam bisogna allora accettare l’esistenza di un paradosso. Sulla pagina bianca non è fissata una sola «parola che sia una» scrive Pasolini, tant’è che l’atto di creazione, l’esercizio cioè dell’immaginario poetico sul fenomeno naturale, reale, genera poesia in uno stato idealmente ipnotico. E chi scrive, scrive «sotto dettatura» perché la poesia non appartiene a un poeta, soltanto a «uno che trascrive, che traduce...». Entro un quadro onirico da «seduta ipnotica», la scrittura si dà come atto spontaneo, irrefrenabile ricaduta naturale di immaginario sulla pagina. Allora riguardo alla figura cancellata del poeta, l’atto poetico richiama la paternità demiurgica di un misterioso «dettatore», a scindere così in un Doppelgänger, quasi un’oraziana «penna biformis», la struttura compositiva di creatore ideale ed esplicito, cioè il poeta, e scriba o creatore reale implicito, quello che per Pasolini sta alle spalle del poeta, l’altro scrivente e adiuvante.
L’homo duplex di Graphis 179 (1975) di Roland Topor, a riguardo è un’illustrazione esemplare. Figura l’immagine di uno scrittore al tavolino dinanzi a una pagina idealmente bianca. È la figura del poeta alle prese con la scrittura. Ma alle sue spalle, ecco una seconda figura, il suo mimetico doppio, un sé stesso altro però, che allunga il braccio destro protendendo la mano sotto il suo avambraccio, e ciò per compiere insieme a lui, una mano nell’altra, l’atto di scrivere. Qui troviamo l’immagine dello scriba che scorpora e raddoppia l’immagine del poeta.
Dunque Mandel’štam scrive sotto dettatura di sé stesso. Così sulla sua parola poetica, in quell’arco di ricerca inaugurato da La pietra (1913) e aperto almeno fino a Tristia (1922), Brodskij scrive che il poeta raccoglie transeunti lembi di realtà, isola atomi di vissuto fenomenico destinati a perdersi. Nel suo atto di scrittura, entro il campo di un’azione preliminare, il poeta però non scrive soltanto. Brodskij aggiunge qualcosa di più. È così fissato il senso occulto dell’atto poetico in Mandel’štam, quell’unità di senso che fa del poeta l’interprete di un gesto continuo, imperterrito, ossessivo: il poeta, scrivendo poesia, in realtà fa altro, riempie «fiale di tempo».
Mandel’štam porta una fiaccola in mano, è un uomo solitario che attraversa la notte. Ciò che la sua luce illumina, lo spettro di realtà che il fascio luminoso epifanizza, è il mondo, cioè la totalità del mondo destinata a rifluire in poesia. Quell’ombra di realtà rubata alla notte, quelle evanescenze sottratte alla tenebra, per Mandel’štam equivalgono a un’universalità di creato, a qualcosa di totalmente elettivo. Le epifanie sono quindi l’esito di uno sprofondamento nella stessa essenza del creato. Mandel’štam, scrivendo, sottrarrebbe tempo al tempo, un tempo in eterna rinascenza, al fine di costruire una palingenesi, una ritemporalizzazione. «Ah, una sola cura mi resta a questo mondo, / un’aurea cura: come sgravarmi del greve pondo del tempo» (Gravezza e tenerezza sorelle: pari i vostri tratti distintivi, in Tristia). L’«aurea cura» del raccoglitore di tempo, del dosatore di «fiale di tempo», è liberarsi di una condanna, cioè dell’unica maniera di essere della poesia.
In Descrizioni di descrizioni Pasolini parla della «saggezza onirica» di Mandel’štam, alludendo a un’attitudine del poeta, quella di chi «comprende e attua tutto il mondo come una segreta e radiosa novità». Così nel notturno poietico di Mandel’štam, la comprensione, la fissazione del mondo in poesia, equivale alla sua reincarnazione temporale, all’istantaneità della sua epifania. Non per nulla, nell’Opera in versi, Gario Zappi scrive che tradurre il poeta – in questo, Zappi utilizza il conio dantesco di Inf. XXI, 75 e Inf. XXII, 35 –, catturarne cioè l’essenza, transita soprattutto dal «tentativo d’arruncigliare il tempo», di ghermire addirittura lo «spazio del tempo». In altre parole, a cogliere la cifra dominante della poesia, è la spazialità fugace e destinalmente fragile del tempo. Ma allora il tempo nella poesia di Mandel’štam non è propriamente chrónos. Più che altro, esso appartiene al più impalpabile rango del kairós. E ciò perché le epifanie non accadono nel corso del tempo ma ricreano il tempo all’atto del loro avvento. Così la poesia di Mandel’štam nasce dentro il tempo, e se il poeta può interiorizzarlo per eternarlo nel verso ciò accade perché è il tempo, il suo coglimento, che genera la poesia. Nasce, questa poesia, entro lo spazio di una parola gravida di tempo. Così, quando in Scolpire il tempo Tarkovskij scrive sul problema temporale nel cinema, idealmente fornisce al lettore il modello di pensiero per leggere la poesia di Mandel’štam: «Analogamente a come lo scultore prende un blocco di marmo e, guidato dalla visione interiore della sua futura opera, toglie tutto ciò che è superfluo, così il cineasta dal ‘blocco del tempo’, che abbraccia l’enorme e inarticolata somma dei fatti della vita, taglia fuori e getta via tutto ciò che non serve, lasciando solo ciò che deve divenire un elemento del futuro film [...]».
Il prediletto luogo di appoggio del pensiero tarkovskijano riguarda la «visione interiore della sua futura opera». Non è soltanto un problema relativo al linguaggio della poesia. In Mandel’štam, a essere rivelato è l’esercizio involontario, e dunque naturale, di una tecnica. La sua poesia, alla fine, è la scintillante residualità di un enorme cumulo, un colossale materiale di scarto. Se il poeta idealmente scolpisce la poesia nel nome di una «visione interiore della sua futura opera», la sostanza spirituale del verso, la mediata ricreazione del tempo, il fatto che il kairós poetico sia afferrato per essere cristallizzato sulla pagina, restituisce quasi un controsenso, quello che si potrebbe definire un evidente effetto d’intemporalità. Ciò tuttavia non vuol dire che la poesia di Mandel’štam sia areale, poiché una tale impressione, che potrebbe indurre a identificazioni metafisiche, rivela espressamente solo il profondo grado di elaborazione, di scolpitura formale del verso. In Mandel’štam vi è sempre una distillata esposizione di realtà. E la parola della poesia, se da un lato genera un effetto di intemporalità, qualcosa che sta nell’immagine ideale di una verticalità aerostatica, dall’altro specifica la sua natura sculturea in un metafora solida e totale, quella che il poeta identifica in un lavoro interamente vissuto e patito dentro un «secolo di pietra». Ciò richiama l’esperienza poetica, la storia stessa della vita e della poesia di Mandel’štam, e la identifica come una perdurante, ossessiva esperienza corporea a un blocco.
Noi leggiamo Il mattino dell’acmeismo, il manifesto scritto da Mandel’štam e pubblicato nel 1919, proprio nell’orizzonte di un’intemporalità spiegata per così dire dalla sua stessa levitante biologia, nata in una fiorente e abbacinante luce, la metafora del «secolo di pietra», dunque non come spiraglio, provvidenziale lesione per una fuga metafisica, ma come radicamento alla cruda terra dell’esistenza.
Così la grande metafora della poesia di Mandel’štam, la poesia come mondo e il mondo stesso della sua poesia, nella sua sculturea identità, nella sua iconicità più litologica suggerisce l’atto di un sollevamento, quello stato di elevazione plasticamente impresso in una pietra verticale, una pietra che però non rinuncia al proprio radicamento terrestre. Una pietra, una parola-pietra finalmente scolpita in un «secolo di pietra», che inopinatamente si libra, che risale lo spazio, che riempie di sé la volta celeste. E così nel Mattino di Mandel’štam cogliamo un’immagine aurorale della sua poesia, qualcosa che appare come un insuperato, cristallino autoritratto. Anzi qui è inscritta la sua immagine-tempo, la sua immagine in movimento. Più plasticamente, la sua essenza di organismo vivente proteso, dischiuso alla conquista di un’altezza, e ancora qui vi è qualcosa che svetta, che alla legge del tempo domanda di compiersi nelle forme di uno spazio violato («Odisseo ritornò di spazio e di tempo ricolmo», Del miele aurato un fiato dalla bottiglia fluiva, in Tristia), un tempo finalmente versato in uno spazio non più «vuoto». Ecco allora la poesia di Mandel’štam come pietra che sale, pietra che viene dal «secolo di pietra», pietra «malvagia», pietra gotica che svetta oltre ogni possibile idea di fine: «La bella guglia gotica di un campanile gotico – è malvagia, poiché tutto il suo significato è pungere il cielo, rinfacciargli il fatto che è vuoto».
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Fotografia © Bieke Depoorter
23/05/2025