PIERO BIGONGIARI
Poesie scelte
La tempesta
Forse è questa l’ora di non vedere
se tutto è chiaro, forse questa è l’ora
ch’è solo di sé paga, ed il tuo incanto
divaga nell’inverno della terra,
nell’inferno dei segni da capire.
Ma non farti vedere dimostrare
ancora le tue formule, è finita
l’orgia dei risultati rispondenti
alle cause. Sei sola, batti i denti
accosto ai vetri nevicati, tetri.
Divergono in un morbido riaccendersi
d’altro sangue i destini che ci unirono.
Tu li ricordi come – in queste tarde
ore che riscoccano dalla pendola –
in un fuoco di tocchi, in un orrendo
scatenarsi, dai tuoi armadi, di bambole.
La nostra vita, catturata, vedi,
mentr’era armata solo di silenzio,
come dai parafulmini ridesti
da un lampo, trova il filo da seguire
per non morire restando se stessa.
Non so
Nell’umido brillare dei tetti,
nel calare del sole tra scogliere
di strade, non so cos’altro aspetti,
s’altro dichiari con parole rade
ai passanti, ai vetri ciechi dei tram,
e a un tratto molto so della speranza,
ma non so neppure cosa si perde
nell’ansimo dell’aria, quasi un battito
accelerato di motore,
quasi tacchi più fitti, una catena
che si tende, gli occhi un poco più desti.
Ma lo sguardo è dentro le cose
a cercarvi la buccia tra la polpa,
e non v’è colpa sufficiente per la nostra gioia,
nemmeno la speranza e la solitudine:
tu sai che non so, tu sai che puoi chiedere.
La parola insensata
Ti chiamo fratello perché ho esaurito tutti gli altri nomi
ma forse il nome è ancora l’inferno di una bugia.
Ti chiamo, fratello, perché ho esaurito tutto quello che ha un nome
e non rimane che un appello senza nome.
Vieni anonimo al mio fianco, tutto quello che mi è accanto è in me
tutto quello che è in un angolo è al centro
tutto quello che è oscuro fa luce, ma anche, vedi,
tutto quello che fa luce è oscuro e oscuramente
ci lascia in luce, accusatori e accusati, mentre ci scambiamo le parti.
Dalle parti della terra c’è una luce che naviga incolore
una luce come l’olio sulla fetta di pane del bambino
che chi non ha nome è stato, chi non ha nome ricorda d’essere stato.
Che fame! Una luce tra i boschi, una luce sotto la fessura cigolante delle porte,
una luce nella fessura che si arrotonda in lacrima nello sguardo di chi ha guardato senza luce.
È una luce che ricorda il mondo mentre lo ama
e si dispone ad essere aguzza e ingiusta,
una luce che prilla nella frusta tagliente
e non è ancora un sistro e attende lamentosa la prima parola.
Perché la prima parola, come l’ultima, ha almeno due sensi
per quanto io creda che ne abbia infiniti: la parola è tutta intorno a sé.
Ma due sensi che fanno tutt’uno, una direzione
che non è l’infinito, ma queste mani e queste tenebre
in forma di oggetti, questo informe finito che non finisce di avere la sua forma
ma la conserva tutta, integra sacra e inutile.
Là fruga la parola-mano, parla la parola-bocca, grida la parola in pericolo:
tutto quello che è stato fa parte della sua direzione, ma non è
la sua direzione, la parola svolta intorno a sé, con un sacro
sacrilego voltafaccia per guardarsi, parlarsi, sorridere, alfine sorridere, alla parola-uomo
che è la più piccola, la più informe, la meno direzionale, la meno diretta,
quasi un grido gutturale, una foglia stormente nell’ugola del vento.
E allora se ti chiamo, chi mi sente, sulla terra spaccata
dalle sue vene profonde, nella fissa vertigine che non riesce a espellerci
da una superficie che non avevamo amato finché non abbiamo saputo che essa
ed essa solo è il livello della parola, fratello perduto
per ritrovarti sotto la specie del nemico irriconoscibile.
Alziamoci insieme dal nostro quatto accostarci di lucertole sulla parola.
Un sonno a Manhattan
È difficile vivere come è difficile morire
ma esiste un occhio semplice sulle cose spesso inascoltato:
chi si volta, chiamato, non vede più il centro,
poi torna a guardare, e vede altro dentro
quello che non è più il suo sguardo: rovinoso
un fulmine incenerisce quanto accende,
le bende che staccano, o sembrano staccare, la ferita
dalla sua sede, chi le vede come qualcosa che è stato,
un campo arato; ma la fioritura è già in boccio
nel sorriso impassibile di un’aurora quasi boreale.
Splende una porta lasciata a mezzo, né aperta né chiusa,
su un batticuore immortale. I fiori lasciati a sfiorire
a Manhattan sulle ire della morte, nel calore della nostra stanza,
seccano nel tuo sorriso umido, amore, nel cristallino dell’occhio
dove spore d’eternità hanno invaso i canalicoli viola
del tuo sonno imminente.
Riposa, non c’è niente
che più di esso valga, nemmeno l’eternità
che il vento suscita tra i mulinelli rappresi dagli angoli
e arresi al tuo sorriso, che le labbra schiudono
ai fantasmi vestiti che ormai non bussano, entrano
nei nostri miti perduti, carrelli ferocemente freddi nei docks
che attendono di essere rimessi in moto, ma le navi non si vedono,
ancora perdute sulle acque gelide dell’Hudson
ad attendere che la patria riemerga, e la terra, e un dolore felice
che si accosta, binari contro binari interrotti, al nuovo cigolio.
Io non ti attendo, sono io che finisco di dare colpi sui picchetti
della tenda che svolazza ancora tra le colombe di Venere.
Il lamento non basta alla punta della spada,
né il canto di gloria né l’inno all’amore derelitto.
Qualcuno, o qualcosa, come fosse ritto là in fondo al letto,
tra i lampi viola del televisore, unge i tuoi piedi di camminatrice,
rimasto a mezzo il mistero, rimasta a mezzo anche la chiarezza
che un vento luminoso cerca inutilmente di sottilizzare
tra ciò che è della mente e ciò che ha smesso di mentire.
Non v’è separazione, il giorno del Dies Irae
ferisce più a fondo in questa Nox Amoris.
Coro dei compagni di Nessuno
Chi non ci disse che andare contro
è andare incontro a sé, ma anche urtare
le più rare radici dell’enigma?
Andavamo controvento verso la patria,
attento ognuno alla sua sártia tesa,
al muoversi dell’onda, al bisbiglio
che in ogni esilio soffoca nel cuore
il traudirsi di ogni lontananza
in ciò che amore disse un giorno a ognuno
sorpreso dal fervore dello sguardo
posato sulle cose consuete.
Gli embrici destinati ricoprivano
i nostri passi e quelli dell’assente,
dell’amata da poco che tornava
per un niente a trovarci: una forcina
dimenticata. Era una scusa. Mente
dolcemente così la verità.
È così serio il gioco. Si dilata
come un impasto lievitato ciò
che contiene in sé d’altro. Chissà... Certo
altro non sapevamo dell’oscuro
e scaltro impeto della mano che indicava
qualcosa nel futuro.
Siamo qui
sulla riva del mare. Là un’isola,
o è una nuvola?, luccica di specchi
controsole. Noi qui spingiamo l’ombra
della nostra persona contro l’onda
che dolcemente suona ai nostri piedi
di un paese perduto. Il nostro? I nostri
eredi siamo noi? Di qual viaggio
che non sa se ritorna o in quale luogo
inoltra il proprio speco luminoso?
Chiede aiuto il giro d’orizzonte,
qua il mare, dilà il monte. Noi dobbiamo
andare in quale direzione? A quale
incontro prepararci? E quell’isola,
se è un’isola e non è un miraggio
che ci rimanda in raggio il desiderio,
qualcuno dice che è Samo, ma
è possibile che tanto ci siamo
allontanati dalla rotta? Dopo
quale vittoria? Perché c’è chi pensa
che abbiamo vinto?
O forse dovevamo
dire qualcosa a qualcuno. Che
non siamo noi i vincitori? Intanto
chi è partito a esplorare non ritorna.
Il mare trema lieve, non risponde
nemmeno l’eco. Il mormorio delle onde
a sorsi deglutisce il nostro fiato.
E non sappiamo se essere infelici
di quanto accade. O non accade? Il nostro
sguardo non altro ascolta che le rade
immagini che chiamano a raccolta,
come rare pernici che divariano
candide sulle nevose pendici,
il nulla, le sue mirifiche strade.
O è la culla incipiente del sonno?
Non è che siamo arrivati laddove
credevamo di essere ancora in viaggio?
È questa l’Ade? Siamo già in ritardo?
Tra la legge e la leggenda
Amo perdere qualcosa, più che per ritrovarlo,
per lasciare una traccia a chi m’insegue,
forse perché amo farmi là raggiungere
dove non sono, mentre guardo il mare
che insinua tra le sue macerie il grido
del gabbiano e un nido tra la ruggine
perduto che galleggia tra le schegge,
al contrario del gran depistatore,
perché so che è difficile seguire
chi, indeciso sulla propria meta,
ma forse proprio in essa pesticciando,
si distrae dietro un viso, si nasconde
dietro il dito che indica le onde
che asciugano e bagnano la riva
del paese natale, la deriva
della luce che liquida ne assale
le sponde e nella mente le ravviva.
Amo confondere il cricchio del tarlo
a un andante di Mozart..., mescolare
il passo del viandante per la via
con quello di chi risale le scale
a semicerchio della nostalgia.
Amo dimenticare il profumo della cedrina
su quello della tua pelle. Del tutto
ricordare la parte più obliata,
del frutto il seme ch’entro sé difende
la sua amarezza in duro tegumento.
Ma se mento, non mento che a me stesso
per dirti la verità che nello stesso
errore è celata, difesa, abbandonata
a crescere in se stessa, nelle proprie
contraddizioni elementari – è lì
che ogni due si unifica, nei suoi
seminali abbandoni.
Amo guardarti
mentre riveli in te una dolcezza
che è quella della fata che nascosta
tra gli alberi occhieggia che nessuno
la segua andando verso il suo tugurio
arredato come una reggia se tu
ne precorri l’augurio coi tuoi occhi,
scheggia impazzita tra gli altri balocchi
del destino che l’uomo chiama vita.
Cammino dietro a poche cose, quelle
meno necessarie, le più volatili,
le meno rare. Forse in mano ad esse
è il codice per leggere il messaggio
che la legge ha lasciato sul tuo tavolo,
semiaperto, semicancellato,
fra terribilità e dolcezza.
Ma se tengo le mani ad un tempo
sui due telai, è che amo riprendere
dal secondo la tela che Penelope
sta sfacendo: è solo con quel filo
– altro non ne ho: l’aspo ne fu rapito –
che sull’altro ritesso la leggenda.
Tu che la leggi strappane la benda
dei segni che l’accertano o la mettono
in forse, perché, vedi, sotto sanguina.
L’enigma innamorato
La vita che ti ho dato, più che mia,
era la voce stessa dell’enigma
innamorato. Tu mi hai restituito,
non so se vero, il suo senso più alato.
Siamo partiti insieme pel viaggio
lontani dalla Sfinge. O era con noi?
Quella laringe ancora gorgogliava
qualcosa... O era solo il lieve raggio
di sole che davanti ai nostri passi
calpestava viole, accecava
grattacieli vetrati, confondeva
negli aeroporti arrivi e partenze.
Ci siamo amati come in un sogno
se è vero, come è vero, che l’amore
ha bisogno soltanto di se stesso
anche se non è in ogni lontananza
da chicchessia che l’ubbia di ogni senso
cancella la distanza dal recesso
in cui danza insensato il suo stesso
significato. Amore non significa?
D’ogni conoscenza altro non magnifica
che il volerne sapere sempre meno?
Sulle rive del Meno mi guardavi
con un sorriso strano. Eri tu
la Sfinge? Mi prendesti premurosa
per mano mentre il sole ancora tinge
del suo ambiguo splendore – quali acque?
Che cosa Amore finge? Cosa tacque?
O la sua voce è sempre più sottile,
la sua parola più e più silenziosa...
Che cosa osa, in quali contrade
sposta le strade, agita la rosa
profumata delle tue labbra, amata?
Non vuole forse farsi riconoscere
nemmeno da se stesso? Lui, solare,
vive meglio nell’ombra del suo eccesso?
È la felicità forse che ha smesso
di ossessionarlo? Parlo, ascolto, dico
all’amore mendico di aspettarci:
troppo veloce è il suo passo aprico
tra i suoi sparsi destini: elevarsi,
distruggersi, trovarsi, anche nascondersi
nell’evidenza. Udito, inaudito,
ha la dolcezza di un canto smarrito.
Ha più fini che mezzi, se l’amore
non ha confini. Ha cuore e non ha cuore
l’amore che esibisce nell’esistere
le sue tessere, le false e le vere?
L’incredulo vuole essere creduto,
sedulo nella sua divina malizia.
Dove ostenta pigrizia, non credetelo:
è lì che abile tesse la sua tela,
è lui che rivéla ciò che svela.
Piero Bigongiari è nato a Navacchio nel 1914. Laureatosi nel 1936 presso l’Università di Firenze con una tesi su Leopardi discussa con Attilio Momigliano, ha insegnato Storia della letteratura italiana moderna e contemporanea ed è entrato presto a far parte del gruppo degli ermetici fiorentini come Mario Luzi e Oreste Macrì. Ha collaborato a numerose riviste tra cui «Campo di Marte» e «Letteratura». È morto a Firenze nel 1997. Tra le sue opere principali segnaliamo: La figlia di Babilonia (1942), Rogo (1952), Il corvo bianco (poesie, 1955), Le mura di Pistoia (1958), Antimateria (1972), Moses (1979), Col dito in terra (1986), Nel delta del poema (1989), La legge e la leggenda (1992) e Dove finiscono le tracce (1996).
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Testi selezionati da L’enigma innamorato. Antologia 1933-1997 (Vallecchi, 2021)